Sabato 30 maggio - Ore 21:00
Domenica 31 maggio - Ore 16:00 e 21:00
Ingresso: 4.00 €
Le vicende del Navy Seal Chris Kyle, personaggio controverso e considerato uno dei più letali cecchini del reparto speciale. Kyle, ribattezzato "The Devil" dai nemici e "The Legend" dai compagni, ha infatti totalizzato il record di uccisioni per un militare nella storia degli Stati Uniti. Chris viene inviato in Iraq con una missione precisa: proteggere i suoi commilitoni. La sua massima precisione salva innumerevoli vite sul campo di battaglie e mentre i racconti del suo grande coraggio si diffondono, dietro le file nemiche viene messa una taglia sulla sua testa trasformandolo nel bersaglio primario per gli insorti. Allo stesso tempo, però, Chris combatte un'altra battaglia, in casa propria, nel tentativo di essere un buon marito e un buon padre, pur trovandosi dall'altra parte del mondo. Nonostante il pericolo e l'altissimo prezzo che dovrà pagare la sua famiglia. Tornato a casa dalla moglie e dai figli, Chris scopre infatti che ciò che non riesce proprio a lasciarsi alle spalle è la guerra.
Regia: Clint Eastwood
Interpreti: Bradley Cooper, Sienna Miller, Cory Hardrict, Jake McDorman, Navid Negahban, Luke Grimes, Kyle Gallner, Owain Yeoman, Brian Hallisay, Sam Jaeger, Eric Close, Bill Miller, Max Charles, Tom Stern
Sceneggiatura: Jason Hall
Fotografia: Tom Stern
Montaggio: Joel Cox, Gary Roach
Musiche:
Durata: 2 ore e 12 minuti
Eastwood non sbaglia un colpo: la storia vera di Chris Kyle e Bradley Cooper sono da Oscar
Clint Eastwood è un grande patriota. Lo sappiamo bene. Così attaccato al suo Paese, a quella bandiera che il veterano Kowalski orgogliosamente sventolava in Gran Torino contro i "musi gialli" del vicinato.
Ma ha anche un grande cuore, che gli permette di raccontare la guerra oggi, l'Iraq (ancora), senza venire meno ai suoi principi. Senza risparmiare vittime ma lasciando fuori lo spettacolo dei danni collaterali.
83 anni e oltre 50 film: nessuno è più versatile, coraggioso, testardo e idealista di lui. Quando mette in scena pagine atroci dimenticate (Lettere da Ivo Jima). I cowboy nello spazio, la passione folgorante tra un uomo e una donna (I ponti di Madison County). Lo Tsunami indagando l'Aldilà (Hereafter). Ricordare come Mandela vinse l'Apartheid con una partita (Invictus) e farci tornare al settembre 2001 con il cecchino Chris, e le sue quattro missioni in Iraq.
Prendere l'angelico Bradley Cooper, con una nomination in tasca se non l'Oscar stesso, e farlo diventare una macchina da guerra, un pezzo d'uomo con 18 chili in più, che non sbaglia un colpo. Oltre 160 "selvaggi" eliminati, una mira talmente precisa da sconfiggere il nemico a distanze impossibili. Leggenda tra i suoi stessi compagni e al contempo una storia vera, tratta dal libro dello stesso Chris Kyle, nato nel 1974 e morto l'anno scorso. Che nelle mani di Eastwood si trasforma in un film potentissimo (dal primo gennaio in sala con Warner), sul sacrificio di tutti i bravi ragazzi americani che hanno combattuto per difendere la Patria.
Sembra retorico? Non lo è affatto. Scorre per oltre due ore senza un momento di smarrimento. A parte quello di Chris, a casa con moglie e figli, con lo sguardo fisso sul televisore spento. Spari, urla ed esplosioni solo nella sua testa. Eppure alla fine ce la fa, riesce a salvarsi dalla morte, dalla follia della guerra. A reinserirsi nella quotidianità famigliare, continuando a salvare vite. Perché è questa la sua missione. E chi meglio di Eastwood può raccontarlo?
Riscrivere la vicenda qualunque di un soldato eccellente e renderla universale. Farci credere che nonostante tutto gli eroi siano tra di noi, anche se spesso con un destino beffardo. (Marina Sanna)
"Otto anni fa Clint Eastwood girò due grandi film sulla stessa battaglia. 'Flags of our Fathers' e 'Letters from Iwo Jima'. Due film cioè due punti di vista, diversissimi e complementari. Il primo era raccontato con gli occhi degli americani, il secondo con quelli dei giapponesi. Ma se nel primo dominava la 'macchina' (la macchina infernale della guerra, la macchina della propaganda, i cannoni e i mezzi da sbarco delle scene di battaglia), nel secondo c'erano solo i soldati, cioè gli uomini. Con tutti i loro sentimenti e i doveri, i dubbi, i conflitti, ammirevolmente orchestrati in un racconto corale tanto asciutto quanto libero nella struttura. 'American Sniper' (...) è l'esatto opposto. Non due film, ma uno solo, dedicato a un uomo che diventa una perfetta macchina da guerra senza smettere di pensare, sentire, soffrire, da essere umano. Non un racconto libero e corale, ma un film ossessivamente orchestrato intorno a uno e un solo punto di vista, quello del leggendario cecchino Chris Kyle (un mastodontico Bradley ooper). (...) Si capisce cosa deve aver attratto Eastwood in questa storia, tratta dalle memorie dell''American Sniper' (Mondadori). Chris Kyle è l'ambivalenza fatta persona. Nessuno spara meglio di lui. Nessuno dubita meno di lui, quando si tratta di difendere i suoi compagni o uccidere quei «selvaggi» (...). Tanto che il film, per aderire meglio al suo sguardo (alla sua visione del mondo), evita con cura ogni riferimento esterno all'orizzonte, angusto quanto inesplorato, dell'eroico Chris. Niente Abu Ghraib, dunque, né la minima allusione alla scena politica. 'American Sniper' parla di soldati, punto e basta. Anzi di quel soldato, della sua vita, della moglie che lo aspettava a casa, magari ascoltando battaglie terribili in diretta sul cellulare (Sienna Miller). Di come riuscì, in un modo o nell'altro, a essere - anche - un bravo padre e marito. E del prezzo pagato, perché non si esce interi dall'inferno. (...) Difficile però non fare paragoni con l'unico cine-capolavoro prodotto finora dalla guerra in Iraq, 'The Hurt Locker' di Kathryn Bigelow (e volendo col successivo 'Zero Dark Thirty'). Per accorgersi che tutta l'empatia di Eastwood, la sua immensa bravura nelle scene di guerra, l'interpretazione monumentale di Bradley Cooper, non bastano a coprire i vuoti di una sceneggiatura troppo generica sul fronte intimo e coniugale per dare al personaggio la complessità e la statura necessarie. Non sempre le storie vere, con tutti i loro vincoli, convengono al cinema. Guardare il mondo attraverso un mirino può essere molto rivelatore. Ma alla lunga, anche se Kyle tiene aperti tutti e due gli occhi, non basta." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 24 dicembre 2014)
"La guerra e i suoi «eroi» hanno spesso attraversato il cinema di Clint Eastwood, non tanto per scegliere tra militarismo o pacifismo quanto per raccontare il confronto dell'uomo con il coraggio e la paura, il dovere e il dolore, la vita e la morte. Nei film di Eastwood, il combattimento esalta spesso l'individualismo e l'insofferenza per le gerarchie (come in 'Gunny') ma non nasconde i segni che la guerra ha lasciato sulla psiche delle persone (come in 'Firefox - Volpe di fuoco') e soprattutto sa rispettare il nemico e vedere in chi combatte dalla parte opposta (come ha spiegato in 'Lettere da Iwo Jima') un essere umano con lo stesso coraggio, le stesse paure e gli stessi ideali di chi gli sta di fronte. Per ricordarci, come ha fatto in 'Flags of Our Fathers', che «qualsiasi somaro crede di sapere che cos'è la guerra» perché «le cose piacciono semplici e lineari: buoni e cattivi, eroi e canaglie» mentre invece gli eroi non esistono. Per questo stupisce che, ormai arrivato alla maturità e alla saggezza degli anni (a maggio saranno ottantacinque), si sia lasciato tentare da una storia come quella di Chris Kyle, il cecchino più letale dell'esercito americano (...). Stupisce perché quel chiaroscuro che Eastwood aveva raccontato così bene in molti film, e non solo di ambiente militare, quell'intreccio di doveri e responsabilità, vitalismo e dubbi che facevano la forza (e il fascino) dei suoi personaggi, qui spariscono o vengono ingabbiati dentro troppo facili e schematiche opposizioni, per restituirci un ritratto a tutto tondo di uno di quegli «eroi che non esistono», tanto per citare ancora 'Flags of Our Fathers'. (...) convincente Bradley Cooper (...). Questa storia, che lo stesso Kyle ha ricostruito in un libro autobiografico (...), Eastwood la racconta con inappuntabile ma scontato professionismo: alterna l'eccitazione dei combattimenti alle depressioni del ritorno a casa, esalta lo spirito di corpo e il senso del dovere dei soldati al fronte e non nasconde le conseguenze psicologiche di chi deve scegliere se uccidere o no, mostra senza reticenze i traumi e le mutilazioni dei reduci ma sembra che niente scalfisca davvero quel soldato dalla mira infallibile. Ogni contraddizione e ogni problema alla fine si risolve nel migliore dei modi possibili, che si tratti di vendicare il compagno caduto in battaglia o di ritrovare l'affetto della famiglia, e anche il dramma finale serve per rafforzare il monumento all'eroismo individuale di chi «fa il proprio dovere». Dimenticando così proprio la lezione che solo qualche anno fa lui stesso ci aveva dato con i due film sulla battaglia di Iwo Jima: che gli eroi non esistono..." (Paolo Mereghetti, 'Corriere della Sera', 30 dicembre 2014)
"I cultori di Clint Eastwood (...), resteranno disorientati. In particolare il confronto con le opere del ciclo d'oro tra 'Mystic River' e 'Gran Torino' passando per 'Million Dollar baby' e il doppio film sulla battaglia di Iwo Jima - nel loro insieme prodigiosa esplosione di creatività e di maturità umana di un artista già ultrasettantenne - risulterà un po' faticoso. Quella massa enorme di adesioni senza distinzione di età e ideologia, che ha visto nelle opere citate le espressioni più alte del cinema mondiale nel primo decennio del nuovo secolo, perderà probabilmente la sua compattezza. (...) Eastwood ha con ogni evidenza inteso comporre il ritratto di un eroe. Con qualche elemento di dubbio - prima dell'arruolamento la personalità di Chris appare nel film piuttosto immatura, e anche in seguito la sua estrema concentrazione sul compito da svolgere appare rigida e a-problematica oltre la misura imposta dalla disciplina militare - ma comunque eroe. E attraverso la piena adesione al suo personaggio si sente da parte del regista anche la piena adesione alla missione storica civilizzatrice affidata dal destino alle armi statunitensi. Idea che invece francamente, e pur mettendo in campo tutta l'elasticità mentale necessaria, sta da un pezzo vacillando. Se non altro perché, dalla Seconda Guerra in poi e tolti soltanto gli episodi che meno dovrebbero essere fonte di orgoglio come il 'vittorioso' sostegno alle peggiori dittature del 'giardino di casa' latinoamericano, questa 'missione storica' ha per lo più fallito. Dopo tutto, però, bisogna accettare che la visione di Clint, che continueremo ad amare e apprezzare, non contiene grandi contraddizioni ed è anzi piuttosto coerente. Ha sbagliato semmai chi lo ha collocato diversamente. Una cosa però sì: il film non è riuscito come altri, non è all'altezza dei suoi capolavori dello scorso decennio, neanche di quelli come 'Gran Torino' che pur contenevano un sentimento di adesione all'ideale americano imperiale." (Paolo D'Agostini, 'La Repubblica', 31 dicembre 2014)
"Tanto per buttar lì due nomi, Billy Wilder aveva diretto il suo ultimo film a settantacinque anni e Chaplin a settantotto. Ma erano tutti e due ormai sfiatati, infatti fecero un doppio flop. Clint Eastwood, che ne compirà ottantacinque in maggio, ha invece un tale carica di energia, che, toccando per lui ferro, potrebbe andare avanti all'infinito. Vedere per credere il suo ennesimo capolavoro. La critica snob ha già emesso la sentenza: 'American Sniper' è un (mezzo) bidone. Forse perché non concede un attimo di tregua e quindi, irrimediabile difetto, non lascia spazio agli sbadigli. Come garantiscono i veri film d'autore. (...) Grande Eastwood, che tira dritto, infischiandosene dei parrucconi. Magari gli stessi che mezzo secolo fa giuravano che avesse due sole espressioni: con il sigaro e senza." (Massimo Bertarelli, 'Il Giornale', 31 dicembre 2014)
"Era stato sdoganato dalla critica monopensante, ora tornerà tra i (quasi) reprobi. Pazienza: Clint Eastwood, 84 anni e oltre 50 film, si è appostato dietro la cinepresa scegliendo - al contrario di quanto hanno fatto con la macchina fotografica l'Hitchcock di «La finestra sul cortile» o il Powell di «L'occhio che uccide» - il mirino del fucile di un cecchino dei Navy Seals per la sommessa celebrazione dell'abilità di un guerriero e insieme il lamento sulla sua condizione di alienato votato alla salvezza dei compagni e la morte del nemico. «American Sniper» è il potente diario audiovisivo tratto dall'autobiografia di Chris Kyle (...). Lo sguardo del demiurgo Eastwood, asciutto e implacabile come quello del massiccio protagonista texano, coglie senza perdersi in ghirigori estetici lo stato di assoluto disorientamento provocato dall'insanabile scissione tra le certezze patriottiche e l'adrenalina della missione foriera dell'impossibilità di tornare alla normalità del quotidiano. Non è un pacifista, certo, il grande vecchio del cinema americano e non lo è mai stato neppure quando officiava le vendette di «Gli spietati», i tormenti fisici e mentali di «Mystic River», le insurrezioni anti-apartheid di «Invictus» o gli assalti da kamikaze per amore di giustizia di «Gran Torino». Ma giudicarlo in virtù d'ideologie pregiudiziali significa non capire la sua tematica fordiana, il suo interrogarsi sul destino e la responsabilità individuali e il ricorrente dissidio tra queste ultime e le ragioni primarie di sopravvivenza di una comunità. Il western, ancora: l'infallibile fulminatore come sceriffo, il suo contraltare adepto di Al-Qaida come 'wanted'; il duello -tra l'altro girato al culmine di una sequenza mozzafiato, un inferno dantesco tra tempeste di sabbia e corpi che s'abbattono- come versione moderna dell'OK Corral; la moglie, il cui rapporto col coniuge rischia sempre più di deteriorarsi, come Grace Kelly che attende trepidante Gary Cooper mentre le pistole cantano nel prefinale di «Mezzogiorno di fuoco». Scabro, lucido e sintetico, Eastwood si avvicina al Peckinpah di «Il mucchio selvaggio» per come sa trasferire il dramma delle acmi mortali dalle quali non si può più recedere nell'occhio, il cuore e la mente dell'interprete combattente (Bradley Cooper): un procedimento d'alta miniatura filmica che funziona da agente principale del suo progressivo sprofondamento in una realtà fantasmatica, ingiudicabile in astratto, inguaribilmente 'altra'. Cosa importa definire Chris un eroe o un assassino, cosa importa sentenziare se ha ragione l'invasione Usa o il terrorismo islamico? Il lavoro dell'artista è quello di mettere a disagio lo spettatore, mordergli l'anima e suscitarne le emozioni più recondite e estreme (Leonardo o Michelangelo non erano biechi guerrafondai). In «American Sniper» è stato fatto così bene da rispondere al compito come quasi mai succede." (Valerio Caprara, 'Il Mattino', 2 gennaio 2015)
"Per spiegare 'American Sniper' occorre tenere presente un fatto: il progetto cinematografico (...) è partito su una sceneggiatura e il nome di Bradley Cooper. La scelta del regista è avvenuta in un secondo momento, avrebbe dovuto essere Spielberg, ma per problemi di inconciliabilità di date il copione è passato a Clint Eastwood giusto a ridosso dell'improvvisa morte di Kyle (...). A questo punto il problema che si presentava a Eastwood era doppio: cercare di non tradire le comprensibili aspettative di vedova e familiari; e al contempo trovare il modo di non fare dell'eroe un santino. (...) Se alla fine l'ex ispettore Callaghan ha realizzato il film è perché ha trovato una chiave di approccio, ovvero quella chiave intimista del confronto ravvicinato con l'essere umano che caratterizza gran parte del suo cinema. Lasciando fuori ogni polemica sulle discusse e discutibili ragioni del conflitto iracheno, il cineasta si focalizza sull'uomo che in buona fede, con lo spirito protettivo del cane pastore, mette un eccezionale talento di tiratore al servizio del paese e a protezione del suo gregge di marines. In perfetta sintonia con il registro di regia, Cooper incarna Kyle non solo raddoppiando mimeticamente la stazza e impugnando con convincimento l'arma, ma portando se stesso, la sua personale sensibilità dentro il personaggio. Scandito sul succedersi delle quattro spedizioni (...) e dei relativi difficili rientri nella normalità, il racconto corre asciutto e lineare. La parte familiare con la mogliettina in ambasce per i travagli psicologici del marito che non riesce a rientrare nella normalità del quotidiano rimane di maniera, ma è un neo trascurabile. Nell'insieme 'American Sniper' è un film senza un grammo di retorica, illuminato da un magnifico interprete e forte della semplicità di un classico." (Alessandra Levantesi Kezich, 'La Stampa', 2 gennaio 2015)
"Non è chiaro quanto Eastwood intenda celebrare sacrificio e dedizione di un soldato simbolo e quanto invece profili un ambiguo carattere d'americano pragmatico vicino alla nevrosi da successo. Le cose si tengono, ma c'è da scommettere che Clint punti all'onore del combattente per la patria. (...) Da Kubrick, Eastwood prende centratura, nettezza e approfondimento del set di guerra. Da se stesso, l'esperienza di interiorizzare la durezza e la virtù: dirige Cooper per dare anima alla statua del soldato, Cooper gli dà un ruolo memorabile." ('Nazione - Carlino - Giorno', 2 gennaio 2015)
"Fin dai primi stacchi, 'American Sniper' «è» la guerra, una realtà che Clint Eastwood ha visitato più volte, sia come attore che come regista (...) e sulla cui inutilità il suo occhio non ha mai equivocato. La stessa implacabile chiarezza illumina questo suo ultimo lavoro (...). Politicamente ed esteticamente parlando, l'occhio di Eastwood è essenziale, efficace, antisentimentale e antispettacolare. E il racconto del suo film evoca la semplicità e la cupa piattezza di quello del libro di Kyle - meno le dettagliate descrizioni dei vari modelli delle armi di precisione di cui l'autobiografia contiene interminabili paragrafi. Eastwood non è affascinato dalla tecnologia di cui il super-cecchino di serviva per mandare a segno i suoi colpi. Il suo non è il corpo dei SEALS, erotizzato come uno spot pubblicitario, alla Ridley Scott di 'Black Hawk Down', o quello della mascolinità romantico/elegiaca che potrebbe vederci John Milius. (...) Dominato non dall'introspezione psicologica, o dall'approfondimento dei personaggi, ma dalle azioni di Kyle, 'American Sniper' è un film procedurale, sul «lavoro» della guerra, esattamente come lo era 'The Hurt Locker'. È anche un oggetto speculare, di segno opposto, al film Oscar di Kathryn Bigelow. Non solo le sue immagini sono volutamente più brutali, realistiche, meno ricercate e stilizzate visivamente: mentre il protagonista del film di Bigelow (Jeremy Renner) era un artificiere specializzato nel disinnescare bombe, quindi in un certo senso, un soldato «pacifista», il rapporto tra Kyle e le sue vittime è impersonalmente personalissimo. Dietro ad ogni colpo (anche quelli che abbattono donne e bambini), c'è una scelta. Sono scelte, in 'American Sniper', che non hanno nulla a che vedere con l'eroismo, con la politica o con il giusto e lo sbagliato. E che pesano moltissimo. Lo si vede quando Chris toma a casa dalla moglie, tra un turno e l'altro, sempre più scollato dalla realtà (un'alienazione già raccontata in Gunny), e quando, alla fine, «rientra» per sempre. Risolte anche quelle con pochi stacchi, le scene all'ospedale dei veterani sono devastanti nella loro asciutta delicatezza. La guerra, le pistole, le pallottole... hanno delle conseguenze. Non importa in che condizioni e per che causa si spari: dietro a ogni proiettile ci sono un uomo, e una decisione - ci ricorda Clint. In un momento in cui anche il cinema sulle realtà più complesse e indigeribili pare disegnato per mandare a casa lo spettatore tranquillo e soddisfatto di sé, è difficile immaginare un autore che osi mettere il pubblico di fronte a una realtà così dura, scomoda. Perché come quello di Ford, Hawks, Aldrich... il cinema di Eastwood è, forse più di ogni altra cosa, un cinema della responsabilità. Il che lo rende un lancinante anacronismo. Più necessario che mai." (Giulia D'Agnolo Vallan, 'Il Manifesto', 3 gennaio 2015)
"La vera storia di Chris Kyle (...) Con qualche licenza, ce lo racconta l'immarcescibile Eastwood, adattando l'autobiografia bestseller di Kyle: il progetto originario era di Spielberg, che poi abbandonò. Peccato, difficilmente Steven avrebbe potuto fare peggio: stante la buona prova muscolare di Bradley Cooper, 'American Sniper' è infido sul piano deontologico e sterile su quello cinematografico. In missione salvataggio, qualche critico ha riesumato 'Sergent York' di Hawks, viceversa, basti ricordare il più recente 'The Hurt Locker' per stigmatizzare la vecchiaia di questo 'Sniper': Clint punta ancora all'epico duello cecchino buono versus cecchino cattivo, eppure già il suo caro Sergio Leone 50 anni fa aveva optato per il triello. Qui non ci si discosta da 'Lone Survivor', se non dello spottone steroideo Act of Valor, e altra fresca memorabilia Navy Seals: non è un complimento. Eppure, gli spettatori non mancano." (Federico Pontiggia, 'Il Fatto Quotidiano', 8 gennaio 2015)
"Di una bellezza ipnotica. E perciò angosciante. È per questo che più di un critico, dopo aver visto 'American Sniper', ha accusato Clint Eastwood di essere tornato alla filosofia giustizialista dell'ispettore Callaghan. Stavolta però si tratta di qualcosa di diverso e di moralmente più ambiguo. A cominciare dall'ambientazione della vicenda, che si snoda tra le macerie fumanti di Falluja, in Iraq. Chris Kyle non è un poliziotto inasprito bensì un Navy Seal: un cecchino infallibile che protegge i marines alla caccia di Al Zar-qawi, uno dei capi di Al Qaida. Kyle non nasce dalla fantasia di uno sceneggiatore: è un uomo vero, un eroe per gli americani. Il cecchino che con oltre 160 bersagli accertati ha salvato la vita di migliaia di mari-nes. American Sniper è la guerra vista attraverso il potente binocolo di Kyle. Le lenti mostrano in modo deformato, ingrandendolo, lo strazio della guerra moderna. (...) Etica pericolosissima con cui certi revisionisti vorrebbero perfino riabilitare i nazisti. Su questa posizione impossibile difendere Clint Eastwood. Ma all'attento osservatore, capace di guardare lo schermo con occhi spalancati e vigile coscienza, non può sfuggire la sottile morale già enunciata da 'Taxi Driver' di Martin Scorsese: la morte genera solo la morte. Anche se si pensa di essere nel giusto. Anche se per un intero Paese sei un eroe. Film durissimo che richiede assoluta maturità di giudizio." (Maurizio Turrioni, 'Famiglia Cristiana', 11 gennaio 2015)