Auditorium di Casatenovo. 50 anni di cinema e teatro

InvictusInvictus

Sabato 20 marzo Ore 21:00
Domenica 21 marzo Ore 16:00 e 21:00

Sconfitto l'apartheid, Nelson Mandela, capo carismatico della lotta contro le leggi razziali, diventa presidente del Sudafrica grazie alle libere elezioni. Anche il mondo dello sport viene coinvolto dall'evento: il Sudafrica si vede assegnato il mondiale di Rugby del 1995 e sulla scena internazionale ritornano gli Springboks, la nazionale sudafricana dagli anni '80 bandita dai campi di tutto il mondo a causa dell'apartheid. Il rugby, infatti, è sempre stato lo sport più seguito dagli Afrikaner e ai cittadini sudafricani di colore veniva riservato negli stadi un misero settore, di solito occupato per tifare la squadra avversaria. In occasione della cerimonia di apertura del campionato mondiale, l'ingresso in campo del presidente Mandela che indossa la maglia di jersey degli Springboks segna un passo decisivo nel cammino verso la pace tra bianchi e neri. A collaborare con lui a questo progetto di integrazione e pacificazione attraverso lo sport, Francois Pienaar, il capitano della nazionale Sudafricana.

Dal romanzo "The Human Factor: Nelson Mandela and the Game that Changed the World", di John Carlin

Regia Clint Eastwood
Sceneggiatura Anthony Peckham
Fotografia Tom Stern
Montaggio Gary Roach
  Joel Cox
Musiche Clint Eastwood

Morgan Freeman Matt Damon
Robert Hobbs Langley Kirkwood
Tony Kgoroge Matt Stern
Patrick Lyster Penny Downie
Patrick Mofokeng Julian Lewis Jones
Marguerite Wheatley Leleti Khumalo
Sibongile Nojila Robin Smith
Bonnie Henna Shakes Myeko
Grant Roberts Scott Eastwood

 

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Valutazione Pastorale (dal sito dell'Associazione Cattolica Esercenti Cinema - ACEC)

Giudizio: consigliabile, semplice

Tematiche: politica e società, potere,  razzismo, sport;

Stavolta Clint Eastwood, solo regista, si lancia nella Storia e nella cronaca. Quelle vere, perché Mandela è ancora felicemente vivo a testimoniare gli eventi, e resoconti e telecronache sono lì a dirci che fu una partita combattuta finita con un punteggio di misura. Se dai fatti autentici il copione non poteva quindi prescindere, Eastwood di suo (prendendo le mosse da un romanzo) ci ha messo il ritmo da ballata popolare, una realtà che diventa quasi favola ma al vero ritorna in alcuni momenti toccanti e coinvolgenti (la visita della squadra alla cella del leader). Così un tema molto caro al regista, quello del perdono, torna in primo piano e si pone come vero punto di riferimento del racconto. Serve il perdono per riconciliare un popolo e fargli riacquistare una identità comune smarrita. Serve lo sport come terreno di una competizione giusta che esalta e entusiasma, meglio se infine vincente. Esemplare in questo sguardo compassionevole, la regia risulta meno attenta laddove costruisce un Mandela troppo bravo, saggio e perfetto, quasi una figura già collocata nell'agiografia. Dal punto di vista pastorale, il film é da valutare come consigliabile e semplice nello svolgimento.

Utilizzazione: il film é da utilizzare in programmazione ordinaria e in seguito come proposta di prodotto spettacolare tra denuncia denuncia e storia

cinematografo.it - Fondazione ente dello spettacolo ***** Eastwood e la nascita della nazione sudafricana: perfetto il Mandela di Freeman, ma l'agiografia finisce tra i pali

Maggio 1994: Nelson Mandela (Morgan Freeman, perfetto) è stato appena eletto presidente. Fine dell’apartheid, ma il Sudafrica rimane lacerato: convincere i connazionali ad appoggiare la squadra di rugby, gli Springboks, nella marcia ai Mondiali può essere la soluzione? Nonostante per i neri sia ancora lo sport razzista dei bianchi e degli Afrikaners, Mandela ci scommette. Guidati dal capitano François Pienaar (Matt Damon), il 24 giugno 1995 gli Springboks affrontano in finale gli All Blacks, davanti ai 62mila spettatori dell’Ellis Park Stadium di Johannesburg.

E’ Invictus di Clint Eastwood, che prende il titolo dal poemetto di William Henley: “I am master of my fate; I am the captain of my soul”, Mandela ne fece un mantra durante i 27 anni di prigionia. Fu l’inizio della vittoria, non di un singolo ma di un popolo: conciliazione e unificazione, che Mandela gettò nella mischia degli Springboks per mandare in meta il nuovo Sudafrica. Quanti di noi conoscevano questa storia? Pochi, pochissimi, e qui sta il merito di Eastwood, voluto dietro la macchina da presa da Freeman (terza collaborazione tra i due), quel Freeman che Mandela aveva battezzato suo alter ego cinematografico già nel ’94.

Regia pulita, struttura (iper)classica, qualche difficoltà per i 170cm di Damon a rendere l’uno e novanta di Pienaar, Invictus non vuole essere il biopic di Mandela, ma la tranche de vie della nascita di una nazione: problema, anche l’agiografia dell’uomo al comando finisce tra i pali. Mandela/Freeman è sempre buono, declama a tutte le ore e mette in fuoricampo i tanti problemi socio-politici che dovette affrontare, eppure dopo quasi tre decenni di prigione i suoi aguzzini li avrà mandati a quel paese o no? Eastwood sceglie la seconda opzione, e il santino fa capolino. (Federico Pontiggia)

La critica

"La storia del Sud Africa ispirava bei film - come 'Zulu' e 'Le sabbie del Kalahari', entrambi di Cy Endfield - quando la decolonizzazione rendeva un'isola politica questa penisola geografica che separa l'Oceano Atlantico dall' Oceano Indiano. Era con malinconia che 'Africa addio' di Gualtiero Jacopetti mostrava sulle scogliere del Capo di Buona Speranza i pinguini, tagliati fuori dal Polo dopo l'ultima glaciazione (...). Sull'altro fronte, proprio in quei giorni Nelson Mandela finiva in galera. Ne sarebbe uscito quarant'anni dopo, sarebbe diventato presidente e avrebbe fatto sì che la preghiera dei suoi carcerieri non rimanesse vana. Infatti Mandela non regolò i conti coi bianchi. Chiuse col passato e aprì al futuro. Per farlo, gli occorreva un simbolo. Glielo offrì la Nazionale di rugby e fu grazie al presidente che il campionato del mondo del 1995 rese il mito sportivo dei sudafricani bianchi il mito dei sudafricani e basta. (...) E' una bella storia, ma soprattutto una storia vera. Pazienza se qui Eastwood non è regista sobrio come in 'Gran Torino': rivolto soprattutto al pubblico africano e a quello nero degli Stati Uniti, 'Invictus' ribadisce le situazioni (Freeman e Damon si stringono la mano a ripetizione) perché tutti capiscano che la vera ragion di Stato non prescinde dalla nobiltà d'animo. Mezz'ora di meno e 'lnvictus' sarebbe un grande film. Ma ci sono momenti notevoli: la rivalità fra guardie del corpo presidenziali bianche e nere e la diffidenza/confidenza fra poliziotti bianchi e ragazzino mendicante nero basterebbero per vedere 'Invictus' e portare a vederlo a figli e nipoti." (Maurizio Cabona, 'Il Giornale', 26 febbraio 2010)

"Se con lo struggente 'Gran Torino', il vecchio Clint aveva firmato un'opera sul riavvicinamento di popoli e culture che convivono non senza tensioni sul suolo americano, con 'Invictus' Eastwood prosegue il suo percorso di riconciliazione con un'opera sul perdono. Protagonista del film è infatti Nelson Mandela (Morgan Freeman) che, divenuto presidente del Sudafrica post-apartheid, cerca il modo di oltrepassare le barriere delle discriminazioni razziali rimaste nel cuore del suo popolo. E lo trova nella nazionale di rugby che, bandita per anni dai campi sportivi e sostenuta solo dai bianchi Afrikaner, si ritrova a giocare nei campionati mondiali. Grazie a Mandela, che indosserà coraggiosamente la maglia degli Springbox, e grazie al giovane capitano della squadra, François Pienaar (Matt Damon), una leggendaria corsa alla coppa diventerà il primo passo di un coraggioso progetto di integrazione e pacificazione." (Alessandra De Luca, 'Avvenire', 26 febbraio 2010)

"Azione, sport, creatività politica, musica e poesia, il seme della libertà secondo Eastwood. Non ricostruisce soltanto l'episodio della squadra di rugby sudafricana che, sostenuta da Mandela, ribaltò l'immagine razzista subita nel mondo. Suscitando, nella centrata interpretazione di Freeman, la dotazione morale e la forza umana del presidente, anche nel confronto con il capitano bianco Pienaar (ottimo Damon) che prende coscienza della vera misura dell'apartheid, si riprende la storia di un Paese 'rovesciato' nella democrazia, della sua nascita alle regole, del tentativo di arginare una rivoluzione riversando nell'agonismo l'esempio delle soluzioni. Abile manovratore di esteriorità e interiorità, Eastwood vecchio e nuovo, con qualche esibizione di gloria." (Silvio Danese, 'Nazione, Carlino, Giorno', 26 febbraio 2010)

"Sembra facile ma il connubio, invitante a priori, ha reso spesso infelici produttori e interpreti. L'attività agonistica come metafora della vita è un soggetto sicuro solo sulla carta. Dove poi c'è di mezzo la palla tonda sono sempre stati guai, con poche eccezioni (una: 'Fuga per la vittoria'). Forse perché l'immaginario viene forgiato in California, dove imperano il baseball e il basket. Onore allora a Clint Eastwood, che si è lasciato incantare dall'astuzia di Mandela e su alcune partite di rugby ha costruito il suo ultimo film. Dimostrando, se ce ne fosse stato bisogno, che il migliore legame ipotizzabile tra un popolo e una bandiera è sempre quello dello sport. Senza retorica, laddove pareva inevitabile, Eastwood racconta la nascita di una nazione attraverso la palla ovale del rugby. E fa amare lo spettacolo anche a chi come molti italiani (nonostante una nazionale orgogliosa) non ne conosce nemmeno le regole. Lunga vita a Clint." (Andrea Martini, 'Nazione, Carlino, Giorno', 26 febbraio 2010)

"Piacerà a chi ama le belle storie americane. Proprio così. L'ambientazione è africana, gli esterni del Continente Nero sono autentici oppure ricostruiti con somma cura a Hollywood (incluso lo stadio che ospiterà a giugno i mondiali di calcio). Ma l'approccio di Clint Eastwood alla storia è quanto di più yankee si possa immaginare. Lo sport come momento alto della vita, l'occasione che dà ai migliori (della pedata, o in questo caso della palla ovale) il modo di essere big anche come uomini tout court. Ancora un po' e Eastwood arriva a darci un colorato quadretto disneyano. Non c'è l'ombra di un personaggio davvero negativo, Mandela è angelicato come in un fumetto delle Edizioni Paoline. Ma Clint evita quel po'. Angelicare va bene, ma non al punto di presentare il rugby come uno sport per signorine. Le mischie sono convulse, atroci (i volti si sfregiano, le ossa si rompono) come le sequenze di boxe in 'Million Dollar Baby' (in fondo i giocatori sono reduci da un odio alimentato per anni). Eppoi, il finale. Dove Clint poteva assegnare l'ultima sequenza a Mandela, paternamente trionfante. O a Pienaar che brandisce la coppa. E invece chiude sul bambino nero. Sollevato trionfalmente in aria, al momento della vittoria, da due omoni bianchi ex razzisti. L'apartheid è veramente solo un ricordo." (Giorgio Carbone, 'Libero', 26 febbraio 2010)

"Un film classico, anzi superclassico. Nel senso del cinema americano fedele ai propri valori d'alto artigianato e per nulla intimidito dal manicheismo d'espressione: Clint Eastwood, alla trentesima prova da regista (chi l'avrebbe detto quando esordì nel 1971 snobbato da tutti), accorpa il film biografico con quello sportivo e rende un gran servizio all'antico Morgan Freeman. 'Invictus', tratto dal libro-verità 'Ama il tuo nemico', risponde, infatti, al pressante desiderio dell'attore nero d'incarnarsi nel presidente del Sudafrica Nelson Mandela: un dato che sarebbe anche trascurabile se il film non dedicasse al carismatico protagonista una sorta di mausoleo per immagini, senz'altro meritato ma alquanto limitante sul piano della densità narrativa e stilistica. Eastwood, certo, non è un cineasta incline alla banale agiografia perché in possesso di un 'occhio' nitido, diretto, essenziale, come dimostrano le numerose sequenze esclusivamente dedicate alla naturale spettacolarità di quel rude e leale gioco di squadra che è il rugby però, a conti fatti, il filo narrativo srotolato da Mandela onnisciente e onnipotente è un po' troppo spesso per potere infondere una seconda vita artistica a uno show nobilissimo quanto autoreferenziale. (...) Ispiratosi ai versi di William E. Henley ripresi dal titolo, il venerabile Clint sa dove mettere le mani e, in un certo senso, la poesia nasce senza forzature, bensì in sintonia con la composizione dei momenti clou. Sia pure preferendo un cinema più ricco di contrasti e sfumature, bisogna insomma riconoscere che questo film su commissione non tiene totalmente in scacco l'azione in nome della devozione." (Valerio Caprara, 'Il Mattino', 26 febbraio 2010)

"Scegliendo di raccontare questa storia in 'Invictus', Clint Eastwood, alle soglie degli ottant'anni, prosegue con bravura e sensibilità il suo percorso di regista impegnato a esplorare l'uomo e la società. E sulla scia di 'Gran Torino' (inno alla non violenza ma anche invito alla tolleranza razziale, contro ogni pregiudizio) affronta i delicati temi del perdono e della riconciliazione. «Il perdono - fa dire al suo Mandela - libera l'anima, cancella la paura. Per questo è un'arma tanto potente». Probabilmente dietro a queste parole non si cela solo un imperativo morale, ma anche un più pragmatico calcolo politico, segno di una lucida visione della realtà, che però non sminuisce il senso di una scelta coraggiosa. (...) 'Invictus' non è, dunque, un film sullo sport in senso stretto, né la biografia di un uomo. Tuttavia, l'accorta regia di Eastwood e la sceneggiatura di Anthony Peckham tratta dal libro 'Ama il tuo nemico' di John Carlin (Sperling & Kupfer) danno un tono quasi epico alle scene agonistiche caricandole di un pathos che richiama i classici del genere, come 'Fuga per la vittoria' o 'Momenti di gloria'. Così come il fulcro della vicenda sembra perfetto per analizzare i tratti essenziali del carisma politico di Mandela. Lungi dal voler dipingere un santino del leader dell'African national congress (Anc), che ha trascorso in carcere 27 anni prima di diventare presidente del Paese e un simbolo planetario della lotta per i diritti civili e per la libertà contro ogni oppressione, Eastwood, grazie all'ottima interpretazione di un Morgan Freeman perfetto nel ruolo del protagonista, ne condensa in efficaci quadri la personalità complessa, segnata da un'esistenza durissima. Emerge così la figura di un uomo intelligente e realista. (...) Efficace e convincente nel far passare le sue idee, per quanto apparentemente contraddittorie con la sua storia e con quella dei suoi fratelli neri, capace di vedere oltre la limitata prospettiva dei suoi collaboratori più stretti che lo sconsigliano di occuparsi del rugby e di quella squadra amata soltanto dai bianchi, Mandela comprende invece quanto quel campionato del mondo sia importante. Il Paese sta vivendo un momento cruciale, l'ombra dell'apartheid ancora incombe nei rapporti tra le persone ed egli sa che occorre fare appello all'orgoglio nazionale; per questo punta sull'unica cosa che in qualche modo può unire la sua gente. (...) E gioca la sua carta più efficace: portare dalla sua parte il carismatico capitano della squadra, Françoise Pienaar, interpretato da un convincente Matt Damon, e attraverso lui tutti i giocatori. Lo fa citando una poesia di epoca vittoriana che era stata la sua fonte di ispirazione durante gli anni trascorsi in prigione, 'Invictus', di William Ernest Henley. (...) Pur non essendo allo stesso livello di 'Gran Torino', di 'Mystic River' o di 'Letters from Iwo Jima', 'Invictus' è comunque un ottimo film, senza quella retorica che pure sarebbe stata comprensibile visto il tema, che racconta una scommessa rischiosa ma vinta e, soprattutto, una vicenda realmente accaduta. Una bella lezione della storia, dunque, portata intelligentemente al cinema da un grande regista a beneficio di un più vasto pubblico." (Gaetano Vallini, 'L'Osservatore Romano', 25 febbraio 2010)

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