Sabato 11 febbraio - Ore 21:00
Domenica 12 febbraio - Ore 16:00 e 21:00
La vita pubblica e privata di J. Edgar Hoover, capo dell'FBI per circa cinquant'anni e sotto ben otto Presidenti degli Stati Uniti. Quello che è stato considerato a lungo come l'uomo più potente di tutta l'America, non si fermò di fronte a nulla pur di proteggere il suo Paese, spesso anche infrangendo le regole. Un racconto sulla sua vita, pubblica e privata, e sulle relazioni di un uomo che poteva distorcere la verità con la stessa facilità con la quale la sosteneva e la affermava: un'esistenza dedicata alla sua idea di giustizia, che spesso tendeva verso il lato oscuro del potere.
Regia: Clint Eastwood
Interpreti: Leonardo Di Caprio, Naomi Watts, Armie Hammer, Judi Dench, Josh Hamilton, Geoff Pierson, Ken Howard, Dermot Mulroney, Josh Lucas, Cheryl Lawson, Kaitlyn Dever, Gunner Wright, David A. Cooper, Ed Westwick, Kelly Lester, Jack Donner, Dylan Burns, Jordan Bridges, Brady Matthews, Jack Axelrod
Sceneggiatura: Dustin Lance Black
Fotografia: Tom Stern
Montaggio: Joel Cox, Gary Roach
Musiche: Clint Eastwood
Durata: 2 ore e 27 minuti
Valutazione Pastorale (dal sito della CNVF della Conferenza Episcopale Italiana)
Giudizio: Raccomandabile, problematico, dibattiti
Tematiche: Famiglia - genitori figli; Omosessualità; Politica-Società; Potere; Psicologia; Storia;
J. Edgar Hoover è stato a capo dell'FBI dal 1924 al 1972, anno della sua morte. Quasi mezzo secolo di storia americana, durante il quale sono passate pagine di storia forti, determinanti, capaci di segnare cambiamenti epocali: la grande depressione, il gangsterismo, la guerra mondiale, gli scenari da guerra fredda degli anni '50, gli assassinii dei due Kennedy, di Martin Luther King, il Vietnam ancora in corso. Mentre descrive la battaglia instaurata da Hoover con il Congresso per rendere il Bureau (come viene definito) sempre più autonomo e libero di agire a piacimento, il copione innesta la Storia grande con il quotidiano dell'uomo, della sua altrettanto difficile ricerca di un equilibrio esistenziale. La presenza incombente della mamma, l'attaccamento a lei, la sensazione di non poter dare seguito alle sua attese in ambito familiare, un sentimento del tutto trattenuto per il suo più fidato collaboratore: sono i tasselli di un ritratto sfaccettato e incontrollabile, come se il disordine interiore di lui, il suo nervosismo trovasse un imprevisto ma adeguato corrispettivo nelle incertezze dell'America, grande potenza mondiale assediata da nemici veri o presunti. Scandito non a caso dal costante succedersi delle varie epoche in una girandola temporale al centro delle quale Hoover è l'unico punto fermo, il copione scava a fondo nei nervi scoperti del rapporto cittadino-potere, ma l'esito non è quello di un prevedibile pamphlet di denuncia. Al contrario, la pulita, nitida, umbratile regia di Eastwood gettà sulla vicenda un'ombra di amarezza, quasi a dirci in un'ottica più ampia le difficoltà di far andare avanti ambizione, buoni propositi, mania di grandezza. Hoover insomma non come specchio dell'America, ma forse come prototipo in ogni tempo e situazione dell'essere causa e vittima del proprio atteggiamento in contesti di differente importanza. Radiografia profonda di certezze e paure umane, il film, dal punto di vista pastorale, è da valutare come raccomandabile, problematico e adatto per dibattiti.
Utilizzazione: il film è da utilizzare in programmazione ordinaria e da recuperare in seguito per la sua profondità nella descrizione dei caratteri e della messa in scena. Attenzione è da tenere per minori e piccoli in vista di passaggi televisivi o di uso di dvd e di altri supporti tecnici.
La storia di Hoover contro la Storia: il capo dell'FBI secondo Eastwood. Con un grande Di Caprio e qualche limite
Un uomo, otto presidenti: troppo, troppo per fare della res publica il focus del biopic. Dopo diversioni e tentennamenti (vedi Gran Torino, Hereafter, Invictus, tutti variamente dimenticabili, se non deprecabili) e prima di fare un reality (sic) formato famiglia à la Ozzy Osbourne, Clint Eastwood finalmente sceglie: il privato sul pubblico, anzi, il privato contro il pubblico.
E lo fa sin dal titolo: J. Edgar, scelto in sartoria, tra un panno e una bindella. Quello che confeziona è un biopic che, essenzialmente, dà per scontato – per gli europei ma anche per molti americani, potrebbero esser dolori - il cotè pubblico di J. Edgar Hoover, demiurgo e capo dell’FBI per quasi 50 anni, e ne rivela la germinazione dal privato, cosicché le gesta di H. altro non sono che esternalità di una dimensione individuale, singolare, idiosincratica, indagata con empatia e astensione dal giudizio: Edgar vorrebbe una compagna, Helen Gandy (Naomi Watts), ma come lei vuole prima il lavoro: ne farà la segretaria e la custode dei (archivi) segreti; J. vorrebbe amare, ma il prescelto è un uomo, Clyde Tolson (Armie Hammer), e non si può fare: omosessuale latente, amante inconcesso, la soluzione è – ancora – lavorativa; Hoover vorrebbe controllare, e ce la farà, soprattutto, a sue spese. Ancora e ancora lavoro, dunque, ma se lì risiede la quantità del filmone (durata: 137’) di Eastwood, non così la qualità: umano, troppo umano questo Edgar, uomo così di potere da non dover essere dimostrato, uomo così fragile da poter essere indagato, sia nel rapporto morboso se non deviato con la madre (Judi Dench, formidabile) sia nel non-rapporto con Clyde, per cui non resta che la tenerezza.
O la morte: pur involuto e massimalista, se non debordante, il finale è il cuore rivelatore. Edgar è Edgar solo morto, si concede a se stesso, ovvero agli altri (Clyde), solo quando non è più. Non a caso, J. Edgar non è un ritratto di J. Edgar Hoover, ma fondamentalmente il ritratto di ciò che Edgar J. non è potuto essere.
Fin qui tutto bene, anzi, meglio, perché anima e corpo è la prova di Leonardo Di Caprio: prova isomorfica, meglio, metamorfica, con una capacità simbiotica a tratti irresistibile. Insomma, da Oscar, se Eastwood e lo sceneggiatore Dustin Lance Black non toppassero alla grande: dagli inizi del ‘900 al ‘72 della morte, è sempre Di Caprio, ma il trucco non aiuta, né la voce che – volente o nolente – non cambia. Addirittura, un velo pietoso va steso sugli altri invecchiamenti al trucco e parrucco: no comment la Watts, risibile il povero Hammer, che invecchia peggio di Benjamin Button.
Peccati di una decennale tranche de vie, che molto dà – sì, l’ambizione non manca - e più di qualcosa toglie, già nella mera verosimiglianza. Non solo, chi ha letto James Ellroy – Hoover è un onnipresente, maniacale spauracchio – e chi ha visto The Aviator potrebbe, dovrebbe lamentare l’assenza di sporco, la latitanza delle ossessioni, la mancanza di qualcosa di fesso e arroventato nell’archivio Hoover. Peccato, ma non si può chiedere a Eastwood quello che oggi nemmeno Scorsese saprebbe più fare: arriverà forse il Mickey Cohen di Sean Penn (Gangster Squad, regia di Ruben Fleischer) a ridare sangue e feccia agli ellroriani, per ora c’è J. Edgar. Il miglior Eastwood dai tempi Lettere da Iwo Jima, ovvero qualcosa in più di Changeling: d’altronde, Di Caprio non è la Jolie e Hoover è Hoover. Un pezzo di storia nella Storia. (Federico Pontiggia)
"Il primo evento annunciato del 2012 è un grande film a metà, diviso fra momenti memorabili e inutili insistenze. La biografia più privata che pubblica di un personaggio che costruì un impero sui segreti. Il ritratto di un omuncolo che nemmeno Leonardo Di Caprio riesce a rendere affascinante, ma fu per quasi mezzo secolo il potente più temuto d'America. J. Edgar Hoover, big boss dell'Fbi dal 1924 al 1972, era la doppiezza in persona. L'uomo doveva essere ambiguo, tormentato, forse segretamente omosessuale. Ma il poliziotto era tenace, spietato, ossessivo, dotato di intuizioni a suo modo geniali che avrebbero rivoluzionato le tecniche di indagine come quelle di gestione del potere - occulto - derivante dall'accumulo di informazioni riservate. Fare un film su di lui significava trovare il modo di convertire la duplicità in ricchezza, l'ambiguità in complessità; ovvero trovare tracce di grandezza in cose meschine come odio, paranoia, intimidazione, ricatto. Ci voleva Shakespeare: infatti lo script brillante quanto pletorico di Dustin Lance Black, già sceneggiatore di 'Milk' per Gus Van Sant, moltiplica i flashback, i risvolti torbidi, i momenti emblematici, ma trova di rado l'equilibrio fra pubblico e personale. Curioso che Clint Eastwood, celebre per la forza e la classicità del linguaggio, si sia imbarcato in questo biopic zavorrato dall'irrimediabile antipatia del protagonista. E dalla chiave scelta per illuminarne la personalità: la dipendenza dalla figura materna, un'arcigna, manipolatoria Judi Dench, con il suo inevitabile (troppo inevitabile) corollario. (...) Peccato che volendo illuminare per forza anche i lati più in ombra del personaggio, 'J. Edgar' sfiori a tratti l'ovvio e addirittura il ridicolo (possibile mettere in bocca a Hoover la battuta di Wilde, «Uccido tutto ciò che amo?»). Nixon, i Kennedy e gli altri protagonisti lasciati sullo sfondo, si sono presi la loro vendetta." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 4 gennaio 2012)
"Cosa proverà Leonardo Di Caprio, rivedendosi sullo schermo in 'J. Edgar'? Nel nuovo film di Clint Eastwood (da oggi al cinema) interpreta il fondatore-direttore dell'Fbi J. Edgar Hoover in un arco narrativo che copre oltre mezzo secolo. La squadra di truccatori capeggiati da Jack Taggart (Oscar sicuro, guai se non glielo danno) ha compiuto su Di Caprio un lavoro pazzesco, ma l'attore ci ha messo del suo, lavorando su gesti, sguardi e camminate fino a sembrare veramente un anziano malmesso. Da un lato gli sembrerà, rivedendosi, di osservare il proprio (futuro) invecchiamento; dall'altro dovrà essere orgoglioso del proprio lavoro. Dev'essere, al tempo stesso, gratificante ed inquietante. La prova prodigiosa di DiCaprio e degli altri attori (Naomi Watts, Armie Hammer e Judi Dench non sono da meno) non deve far passare in secondo piano i valori cinematografici e politici di 'J. Edgar'. (...)Eastwood e Black sono espliciti, ma con grande finezza. Anche le due scene più estreme del film sono risolte con gusto, sapienza drammatica e - oseremmo dire - affetto, più che rispetto. (...) Più che un 'j'accuse' all'Fbi e alle sue ingerenze nella politica Usa, 'J. Edgar' è un film sulla manipolazione, sui ricatti, sulla spasmodica ricerca di informazioni su cui la politica è costruita. Il che fa di Hoover un personaggio paradossalmente modernissimo, e non solo per le geniali tecniche di indagine da lui introdotte: l'inventore della politica-spazzatura e di tutte le macchine del fango in azione, ieri oggi e domani, è lui. Il film è quindi importante e densissimo, anche se piuttosto complesso per la sua struttura in flash-back fin troppo intricata. Soprattutto la prima mezz'ora è faticosa e un rapido ripasso di storia americana potrebbe aiutare. Film molto bello, ma 'Mystic River', 'Million Dollar Baby' e 'Gran Torino' erano un'altra cosa." (Alberto Crespi, 'L'Unità', 4 gennaio 2012)
"Dopo una serie di documenti di contro-informazione new left e anni 70 molto dettagliati e critici su questo 'metodo Hoover' (...), e i capolavori polemici di Larry Cohen e Emile De Antonio, anche Clint Eastwood, controstorico dell'America da sempre, da Callaghan a Iwo Jima, da Grenada alla depressione, da Charlie Parker al genocidio west, capace di coniugare l'analisi storica con le sue profonde implicazioni immaginarie e simboliche, come neppure Arthur M. Schlesinger jr. è stato mai capace di fare, torna a Hoover (impersonato - con un ovvio sfoggio di make up pesante, alla 'Il divo', spesso davvero imbarazzante - da un feroce e delicatissimo Leonardo Di Caprio), monumento rimosso dell'essere americano, ma modificando tono e punto di vista. Non tanto perché in 'J. Edgar' Eastwood racconta la lunga e mai interrotta storia d'amore virile e platonica tra il capo dell'Fbi e il suo braccio destro, costringendo il pubblico a stare sempre dalla parte di un innamorato frustrato nelle sue più represse passioni e pulsioni (da una educazione puritana che ne ha deformato personalità e sessualità). Ma perché il punto di vista mai liberal del repubblicano lincolniano in stato di allarme Clint (...) è assai più convincente quando sentenzia che Hoover sembra come lui ma è all'opposto, è il sintomo di un morbo fanatico e fondamentalista, di una malattia pericolosa e profonda che ha avvelenato lo stesso individualismo, drastico e democratico americano, e che forse è all'origine della profonda crisi di civiltà che sta distruggendo il baricentro spirituale del suo paese." (Roberto Silvestri, 'Il Manifesto', 4 gennaio 2012)
"'J. Edgar', 'biopic' di Clint Eastwood su J. Edgar Hoover, l'onnipotente capo dell'FBI per quasi mezzo secolo. In America è appena uscito e già i critici parlano di Oscar. E i 'vecchi' del Federal Bureau tirano un sospiro di sollievo. II loro mito non ne esce malissimo. Avevano una gran paura che Dustin Lance Black, lo sceneggiatore di 'Milk', lo trattasse da checca scatenata, e invece il côté omosessuale, pur presente ed evidente, è accostato con indubbia delicatezza. (...) Nel film c'è tutto. Eppure quest'uomo odioso non arrivi mai a odiarlo nel corso dei 140 minuti. Per J. Edgar, Eastwood nutre evidentemente l'odio amore che Orson Welles portava al magnate di 'Quarto potere', che Eisenstein nutriva per 'Ivan il terribile'. Come in 'Ivan', Clint fa salire il suo antieroe al trono in un Paese che sembra in preda al caos, giustificando in parte la serie di carognate che vedremo fare a Hoover (come a dire, in un mondo di carogne per metter ordine ci voleva la carogna e mezza). In realtà Eastwood da buon americano ha un innato rispetto per chiunque sappia fare bene il proprio 'job', il proprio lavoro. E Hoover lo fece benissimo. Anche se i suoi metodi farebbero rivoltare le budella a qualunque persona perbene. Anche le budella di Clint? Beh, nel film si nota un'omissione a dir poco sospetta. Non compare nemmeno di sfuggita il personaggio di Melvin Purvis, il 'duro' dell'FBI, l'uomo che sparò a John Dillinger e a Pretty Boy Floyd, che mise in ginocchio Machine Gun Kelly. Con Purvis, Hoover tirò fuori il suo verminaio. Geloso della fama del suo agente, a forza di 'mobbing' lo fece cacciare dall'FBI, poi con l'intimidazione e il ricatto gli bruciò un'altra carriera. Purvis finì per spararsi con la pistola che aveva ucciso Dillinger. Nel film non c'è. Ma perché?" (Giorgio Carbone, 'Libero', 4 gennaio 2012)