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La difficile pre-adolescenza di una "banda" di ragazzini in desolato quartiere di periferia che segnerà inevitabilmente le vite di alcuni di loro: trent'anni dopo, infatti, Sandro, Carmine e Cinzia sono ancora marchiati da quell'esperienza incancellabile che ha traumaticamente segnato la fine dell'infanzia...
Tratto dall'omonimo romanzo di Stefano Massaron.
Regia: Daniele Gaglianone
Interpreti: Valeria Solarino, Filippo Timi, Stefano Accorsi, Valerio Mastandrea, Giampaolo Stella, Giuseppe Furlò, Giulia Coccellato, Giacomo Del Fiacco, Leonardo Del Fiacco, Annamaria Esposito, Alessia Di Domenica, Giulia Geraci, Michele De Virgilio, Anita Kravos, Cristina Mantis
Sceneggiatura: Daniele Gaglianone, Giaime Alonge, Alessandro Scippa
Fotografia: Gherardo Gossi
Montaggio: Enrico Giovannone
Musiche: Evandro Fornasier, Walter Magri, Massimo Miride
Valutazione Pastorale (dal sito dell'Associazione Cattolica Esercenti Cinema - ACEC)
Giudizio: Complesso/problematico/dibattiti
Tematiche: Bambini; Famiglia; Male; Sessualità
Violenza sui bambini: tema delicato, difficile, complicato da trattare. Partito da un romanzo, Gaglianone delinea quattro percorsi che si incrociano, uno riguarda il passato, gli altri tre il presente. "Ma il passato - precisa- non è mai un flashback come il presente non è mai un forward. Tranne nel finale, il passato diventa un ricordo, un frammento della memoria, si tratta di un tentativo di riconciliazione con se stessi e i propri fardelli". Sottraendo tutto ciò che visivamente poteva esserci di disturbante, il regista si affida al peso emotivo delle immagini, al carico soffocante delle atmosfere, al doloroso incrocio di destini tra la festosità dell'infanzia e l'incubo irrazionale dell'adulto impazzito. Nei gesti, nei comportamenti dei tre ormai uomini e donne maturi, si legge l'impossibilità di dimenticare una ferita troppo profonda. Qui Gaglianone spinge il pedale del dolore esistenziale fino a comporre un melò tra decadenza e discesa verso la fine. Con qualche compiacimento estetizzante, con un senso di male assoluto, rassegnato e ineliminabile. Ieri come oggi, le famiglie che dovevano guardare i piccoli e (forse) aiutare i grandi non esistono, tutti siamo irrimediabilmente soli. C'è da riflettere e da discutere su un film che, dal punto di vista pastorale, è da valutare come complesso, problematico e adatto per dibattiti.
Utilizzazione: il film può essere utilizzato in programmazione ordinaria, ben tenendo conto del tema che lo indirizza ad un pubblico adulto e per proiezioni seguite da dibattiti. Per lo stesso motivo molta attenzione è da tenere in vista di passaggi televisivi o di uso di dvd e di altri supporti tecnici.
Il mostro di Dusseldorf si è fermato in Piemonte e ha fatto una brutta fine: che noia la fiaba nera di Gaglianone alle Giornate
Ci sono film belli e importanti, brutti e sbagliati. E film come
Ruggine. Che sarebbe meglio dimenticare. Tra le mani Gaglianone aveva un
progetto interessante, una fiaba nera ambientata nelle periferie
torinesi degli anni '70, dove i piccoli figli di immigrati (meridionali
e non) giocano come possono e spesso come non dovrebbero, organizzati in
bande a simulare guerre. Che poi tanto innocenti non sono. Del resto la
durezza è di casa, e il male altrove: arriva da chissà dove, intabarrato
in abiti perbene, e dove può s'incista.
L'orco è un pericoloso
pedofilo. Gira con la sua macchina elegante, sempre lucida, infilata
spesso tra gli spazzoloni di un autolavaggio, perché fondamentale è
"apparire" puliti (è una delle tante ricorrenze visivo/semantiche del
film, e uno dei suoi vezzi più odiosi: metaforizzare di continuo il
racconto). E' il nuovo pediatra del quartiere, un signore con la laurea
in un mondo di operai. Viene rispettato da tutti, mentre lui si "prende
cura" dei loro bambini. Grugnisce che pare un maiale, come Peter Lorre
fischiava (M - Il Mostro di Dusseldorf) e Robert Mitchum cantava (La
morte corre sul fiume). Peccato che orco Filippo Timi non abbia medesima
efficacia. Esageratamente aberrante. Una brutta caricatura.
E poi ci sono i tre bambini che hanno la sventura d'incontrarlo e la fortuna di sopravvivergli. Un piccolo capobanda siciliano, Carmine. L'amico esile, figlio di immigrati pugliesi, Sandro. E la bella e dura del gruppo, Cinzia. Il film si sdoppia: tra un momento della loro infanzia già adulta e quello dopo, della maturità incatenata all'infanzia.
Gaglianone alterna senza soluzione di continuità passato e presente, e va bene, vista la loro forte compenetrazione; va bene anche scegliere modalità diversificate di messa in scena per esprimere le prospettive dell'età acerba - spazi aperti, carrelli e dolly di una stagione tutta proiettata in avanti - e quelle dell'età adulta - immobile, rigidamente chiusa tra spazi gretti e angusti. Non va affatto bene invece il rigido meccanismo di causa/effetto adottato dal regista, come se tra eventi separati da oltre 30 anni ci fosse una stretta consequenzialità. Si fatica a credere che gli esseri umani non abbiano evoluzioni psicologiche più complesse.
Sono personaggi, questi, senza sfumature. Non recano le tracce nascoste di un trauma come ci si aspetterebbe, ma ne esibiscono le stimmate, in un'esplicita rimessione di subconscio e di psicanalisi socializzata. Così Carmine (Valerio Mastandrea) tira fastidiose filippiche agli amici del bar; così Cinzia (Valeria Solarino) rigurgita disillusa profondità, rabbia e vecchie storie di violenza ai gretti e stereotipati colleghi del consiglio di classe.
Discutibile inoltre il perfetto bilanciamento tra le due parti, in termini di durata e d'importanza: avremmo desiderato seguire maggiormente la storia dei bambini - non particolarmente simpatici per la verità e nemmeno diretti benissimo - e invece dobbiamo interromperla di continuo, per sapere che da grandi non sono cresciuti granché e che passano il tempo in attività a basso intrattenimento: ad esempio, per dirci che tra i tre ragazzini l'unico ad avere superato brillantemente la prova di maturità è Accorsi/Sandro, Gaglianone c'impone interminabili sequenze di gioco col figlio (quel gioco che, quando Sandro era piccolo, il padre gli aveva negato e l'orco rubato: viva la retorica!), che sono uno strazio per lo spettatore. E che dire delle banalità profuse dai professori e dalla stessa Solarino? O della lezioncina sulla predestinazione sociale di Mastandrea, sempre sciatto e uguale a se stesso?
Peccato. La vicenda, tratta dal romanzo di Massaron, era roba incandescente. Ma Gaglianone - preoccupante la sua involuzione - sceglie un modo tutto italiano per trattarla: preferisce cioè esibire una patente autoriale piuttosto che mettersi al servizio della storia e dei personaggi. Confonde la tecnica con lo stile, rimane prigioniero della carta per quanto riguarda i dialoghi, si rivela poco agile nel costruire le situazioni. Non trova nemmeno una forma convincente (né orrorifica né onirica né drammatica: quale allora?) per esprimere ciò che una narrazione, forse meno ambiziosa ma più aderente al soggetto, avrebbe saputo fare.
Abbiamo citato prima due capolavori del genere come M e La morte corre sul fiume non a caso: sono film realizzati oltre 50 anni fa, costruiti secondo regole classiche, attenti alle psicologie e sensibili ai dettagli che sanno comunicare sotto la superficie delle cose. Erano film in apparenza più facili ma di fatto profondamente ambigui, inquietanti, sinistri. E il bello è che sono ancora nuovi. Non "nuovi per forza", come tanto nostro cinema pretende di essere. Quando di originale invece continua ad avere solo il peccato (di superbia). (Gianluca Arnone)