Sabato 29 ottobre - Ore 21:00
Domenica 30 ottobre - Ore 16:00 e 21:00
Cheyenne, rock star ormai ritirato dalle scene, parte alla ricerca del persecutore di suo padre, un ex criminale nazista ora nascosto negli Stati Uniti. Nel cuore dell'America, inizia così il viaggio che cambierà la sua vita. Dovrà decidere se sta cercando redenzione o vendetta.
Regia: Paolo Sorrentino
Interpreti: Sean Penn, Judd Hirsch, Frances McDormand, Kerry Condon, Eve Hewson, Joyce Van Patten, David Byrne, Shea Whigham, Tom Archdeacon, Harry Dean Stanton, Seth Adkins, Simon Delaney, Gordon Michaels, Robert Herrick, Tamara Frapasella, Sarab Kamoo, Liron Levo
Sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Umberto Contarello
Fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Cristiano Travaglioli
Musiche: David Byrne
Durata: 1 ora e 58 minuti
Valutazione Pastorale (dal sito della CNVF della Conferenza Episcopale Italiana)
Giudizio: Consigliabile, problematico
Tematiche: Famiglia - genitori figli; Matrimonio - coppia; Storia
Ecco il film nato dall'incontro tra Sorrentino e Sean Penn durante la serata finale del festival di Cannes 2008, l'americano presidente di giuria, lui premio della giuria stessa per "Il divo". Spiega Sorrentino: "Da un lato il dramma dei drammi, l'olocausto, dall'altra il suo avvicinamento ad un mondo opposto, fatuo e mondano per definizione, quale quello della musica pop e di un suo rappresentante, ormai fuori dal giro e abbandonato ad un'esistenza oscillante tra la noia e il leggero stato depressivo". La storia comincia in Irlanda ma poi riserva la parte più corposa agli States. "I luoghi americani (il deserto, le stazioni di servizio, i bar bui coi banconi lunghissimi, gli orizzonti lontanissimi) sono un sogno - dice Sorrentino - e, quando ci sei dentro, non diventano reali ma continuano ad essere sogno...". Tra i due punti si muove il protagonista, uomo che ha scelto un modo di fare un po' infantile, segnato da un umorismo secco e tagliente, amaro e generoso. La ricerca del nazista, portando lo script 'on the road', taglia il racconto. La regia sale in primo piano: Sorrentino è bravo a inquadrare località e persone, a restituire i sapori di atmosfere, umori, sensazioni; ma così facendo perde i raccordi con il copione. In questo modo la parte finale cala di tensione, troppo estetizzante e poco incisiva nei confronti dei temi affrontati. Il regista europeo affronta da 'autore' la mitologia americana, e ne esce con qualche ferita. Resta un prodotto pensato e condotto con coraggio, segno di crescita professionale e che, dal punto di vista pastorale, è da valutare come consigliabile e nell'insieme problematico.
Utilizzazione: il film è da utilizzare in programmazione ordinaria e in seguito come proposta di prodotto 'misto' (Europa/America) da seguire con molta attenzione.
Catarsi e redenzione nel road-movie a stelle e strisce di Sorrentino. Con Sean Penn in stato di grazia
Se il cinema fosse un campionato di calcio, si potrebbe dire che i film di Sorrentino praticano una sorta di personale e originalissima commistione di contropiede all’italiana e inventività carioca.
Non un film che assomigli ad un altro, se non per la comune, estenuata ricerca stilistica e l’ansia di esplorare, reiteratamente, situazioni eccentriche e personaggi estranei ad ogni verosimiglianza. Colto ogni volta di sorpresa, lo spettatore (in primis quello professionale, notoriamente più rigido e meno reattivo) precipita in uno stato di stordimento prossimo all’inazione. E’ successo anche stavolta, in maniera forse ancora più evidente del solito: forse per le notevoli aspettative generate dal primo progetto in lingua inglese del regista napoletano, decisamente oversize rispetto agli scarni budget nostrani. O, forse, per la barriera di un idioma che i critici italiani frequentano poco e male, risultando qui invece essenziali sottigliezze e calembour verbali non meno delle ardite acrobazie imposte da Luca Bigazzi alla mobilissima macchina da presa, o delle raffinatezze interpretative di uno Sean Penn semplicemente superlativo. Da cui certi rimproveri, neppur troppo velati, di sostanziale inconcludenza e riprovevole mancanza di spessore, quando invece il disegno è chiaro, almeno quanto le strategie formali messe in atto da Sorrentino (senza dimenticare gli assist procuratigli da Umberto Contarello, co-sceneggiatore in stato di grazia).
This Must Be the Place è in un certo senso un racconto di catarsi e redenzione come i suoi film precedenti, ma è soprattutto un’ardita variazione sul genere road movie ampiamente debitrice della tradizione letteraria picaresca. Ora, se c’è un elemento che contraddistingue quest’ultima, oltre alla promiscuità dei toni e la prevalenza di situazioni comiche e assurde calate in una dimensione epica, è l’assoluta orizzontalità del racconto. Sorrentino si appropria di entrambi i principi formali, comprimendo e annullando la profondità presupposta dai temi del film (la tardiva maturazione del protagonista e la ricerca del vecchio nazista che ne aveva umiliato il genitore) nella superficie, quanto mai elegante e godibilissima, di una narrazione che inanella un episodio stravagante dopo l’altro, un incontro ogni volta più strampalato e bizzarro del precedente, fino ad apparire come il risultato di una scommessa eccentrica giocata dagli autori sulla pelle di noi spettatori: non consentire mai che un’inquadratura lasci intuire la successiva, o una situazione appena tratteggiata ne presupponga un’altra secondo una logica di causa ed effetto.
In un film di soli partiti presi - come imporre a Sean Penn di trascinarsi dietro un incongruo trolley per tutto il film, o di parlare in un irresistibile falsetto al ralenti, che è una delle infinite risorse esilaranti del film – ha poco senso chiedersi se il finale sia discutibile nella sua ostinata leggerezza, o quanto colpevoli risultino le indulgenze stilistiche a fronte della pesantezza di un tema (l’Olocausto) che reclamerebbe un diverso trattamento. Conviene invece abbandonarsi senza riserve a questa improbabile e disarmante odissea americana, sulle tracce dell’Ulisse più ingenuo e accattivante che si potesse immaginare. (Alberto Barbera)
"Rapsodico e anti-psicologico certamente. Saturo di grande musica, grandi inquadrature e grandi paesaggi, è scontato. Dialogato sul filo del compiacimento sarcastico, c'era da aspettarselo. Recitato sottraendo anziché aggiungendo, senza dubbio. Messo in maschera con la memoria rivolta ai classici del minimalismo on the road, lo capiamo subito. Quello che, però, bisogna dire prima d'ogni altra osservazione è che 'This Must Be the Place' trasuda intellettualismo da tutti i pori dello schermo: un procedimento voluto, certo, che costituisce un po' la cifra dell'autore, Paolo Sorrentino, diventato talmente bravo da stupirsi di se stesso. (...) La perizia del cesellatore d'immagini, corroborata dalla strenua applicazione del direttore della fotografia Bigazzi, è sicuramente impressionante. (...) Sean Penn, musa ispiratrice dell'impresa, è doppiato in italiano da Massimo Rossi, ma non sapremmo dire - proprio come fa il regista - se quel flebile falsetto, talvolta risucchiato da un risolino demenziale, conferma l'audacia del grande attore o accompagna il suo incedere tra il catatonico e lo psicotico con un costante sberleffo. Non a caso 'This Must Be the Place' si sviluppa con un ritmo stop-and-go: Sorrentino coglie la strana, infinita bellezza dell'iperrealtà yankee (...), teme che gli si trasformi tra le mani in 'estetica' e ci dà dentro con i tic (Cheyenne/Penn che storce la bocca per scostare il ciuffo), i flash di minima comune alienazione, gli atti gratuiti intrisi di pensierosa insensatezza e le sue fatidiche battute a effetto. Bravo, bravissimo; ma col pericolo che gli si rivolti contro una delle frasette biascicate dal suo antieroe: «Ci hai fatto caso che nessuno lavora più e tutti fanno un lavoro artistico?»." (Valerio Caprara, 'Il Mattino', 14 ottobre 2011)
"Bisogna vedere due volte il film di Paolo Sorrentino. Una per goderlo, una per capirlo, perché il senso profondo (e abbastanza disturbante) di 'This Must Be the Piace' è diluito in una struttura narrativa leggerissima e in una serie di immagini così fluide e affascinanti da mettere quasi in ombra la sostanza del discorso. Molto meno ovvia, e più 'pesante', di quanto sembri. (...) Un gioco di prestigio che lascia ammirati per l'abilità, ma anche sgomenti per la disinvoltura. Le ultime parole sui titoli, così seducenti, appartengono al carnefice. Non si era mai visto." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 14 ottobre 2011)
"Sul finire degli Anni '70 si impose nel rock un filone dark-gotic. Sul modello di Robert Smith, leader dei Cure, è ritagliato la figura di Cheyenne, ex-rockstar protagonista di 'This Must Be the Place'. Occhi bistrati, cerone bianco, rossetto vermiglio, capelli cotonati: fa un certo effetto vedere un cinquantenne conciarsi così. (...) Realizzando 'This Must Be the Place', che prende il titolo da una canzone di David Byrne autore delle musiche che felicemente attraversano il film, Sorrentino ha rischiato di cadere in varie trappole - far accettare al pubblico un protagonista tanto insolito, girare all'estero senza sembrare un turista per caso - ma è riuscito a evitarle tutte. Ha messo su un cast eccellente di nomi più o meno noti, da Frances McDormand a Kerry Condon, calandoli in ruoli congeniali, con dialoghi ben scritti e spiritosi. Al centro dell'affresco uno straordinario Penn che, recitando su una corda sola con vocetta cantilenante e immerso in una sorta di torpore depressivo, riesce a far emergere del personaggio, al di là dell'aspetto grottesco, la gentilezza, la sensibilità, l'umorismo. Quanto ai luoghi, il regista li ha trasfigurati in chiave pittorica, con un occhio al cinema on the road di Lynch e Wenders e tocchi di fiaba surreale alla Tim Burton. E' un risultato importante, maturo che conferisce a Sorrentino una sicura collocazione sulla scena internazionale. Rimane in piedi un'osservazione. Il fatto che il tema dell'Olocausto resti una trovata più che un motivo sentito, va a scapito di quello che doveva essere il nucleo emozionale del film, ovvero il tema di un riavvicinamento alla figura paterna e del ritrovamento di una propria identità." (Alessandra Levantesi Kezich, 'La Stampa', 14 ottobre 2011)
"Set Irlanda - Usa. Rigoglioso di musica iconoclasta ma 'diabolica', e di superba, ma intermittente, qualità visiva, il primo film 'internazionale' di Sorrentino, che ebbe la sua 'controversa' prima a Cannes 2011, si avvale di una inusuale schiera di attori mozzafiato, esigenti e 'indipendenti', capaci di reinventare (anche foneticamente) e trasportare al massimo della potenza espressiva dialoghi e situazioni non sempre coerenti sul piano emozionale: Sean Penn, David Byrne (e il suo 'True Story' resta la guida ideale per euro film in trasferta americana), Frances McDormand e soprattutto Harry Dean Stanton (in un cameo-omaggio a Wenders, Milius, Cox e Hellman). Però il racconto ha il cuore artificiale di un protagonista dal corpo-maschera, in stile 'Divo', grottesco e estetizzante. Poi, quando si arriva all'osso (la caccia al criminale nazista) l'architettura narrativa si sgonfia, con salti di dettaglio inspiegabili più scene didatticamente e eticamente ambigue. (...) Un rallentamento ieratico dei dialoghi, nella prima parte, e la meditazione 'quasi brechtiana' che i 'set nordamericani' fanno su se stessi almeno affermano un'identità altra. Se il cinema Usa è azione epica ed eroi, il nostro risponde, come Lacombe Lucien: «attenzione, non erano tutti eroi, anzi...». Prima parte irlandese. Seconda, un road movie in Usa." (Roberto Silvestri, 'Il Manifesto', 14 ottobre 2011)
"Paolo Sorrentino nel suo primo film in lingua inglese e Sean Penn nel suo primo film diretto da un italiano, hanno costruito insieme un personaggio inquietante e commovente, esiliato dal mondo e da se stesso, che all'improvviso torna ad affrontare il mondo e se stesso sulle tracce di un passato che non ha vissuto. Una canzone del 1983 dei Talking Heads, 'This Must Be the Place', dà il titolo al grande, umanissimo film, e lo spezza separando le due vite dell'invecchiato Cheyenne. Prima era un bizzarro reperto di un tempo finito, rifugiato tra le casine silenziose irlandesi, poi, abbracciando il vecchio amico e ritrovando la seduzione della sua musica, ripiomba nell'America della sua giovinezza, delle sue radici familiari e religiose. L'italiano Sorrentino riesce a creare un itinerario americano sorprendente, luoghi e persone che abbiamo visto in tanti altri film ma visti con uno sguardo nuovo, profondo, che isola gli incontri con una serie di personaggi solitari, malinconici e talvolta folli, immersi uno ad uno in paesaggi vuoti e sconfinati, oppure chiusi in casette fragili e tristi." ('La Repubblica', 14 ottobre 2011)
"E' stato istruttivo vedere 'This Must Be the Place', l'atteso film 'americano' di Paolo Sorrentino, in concorso all'ultima edizione di Cannes (tra l'altro in compagnia di 'Habemus Papam' di Nanni Moretti). È stato istruttivo perché ci ha indirettamente mostrato, in modo meno traumatico e tragicomico delle opinioni internazionali su Berlusconi, come vedono l'Italia all'estero. Proviamo a spiegarci. 'This Must Be the Place' è una produzione internazionale, con un divo come Sean Penn. Per un regista poco più che quarantenne è una grande scommessa, e come tale l'abbiamo vissuta noi italiani. (...) 'This Must Be the Place' non aveva sorpreso quasi nessuno, al punto che se l'italianità del suo regista fosse stata taciuta tutti l'avrebbero preso per un 'normale' film americano indipendente. Insomma, se originalità c'era, in 'This Must Be the Place', non è arrivata. E l'America del film l'avevano già vista tutti, o quasi. (...) È almeno la terza volta che Sorrentino prende un cantante (rock o neomelodico che sia) fra i 40 e i 50, analizza la sua crisi e poi lo fa partire - in due casi su tre - per le Americhe. Anche lavorare in modo ossessivo su un tema è legittimo, per un artista. Ma è altrettanto legittimo per uno spettatore, e per un critico, segnalare il rischio della coazione a ripetere. (...) Il film è bello, e magistralmente girato; ma è molto meno sorprendente del 'Divo', che infatti all'estero - pur parlando di una 'cosa' al mille per mille italiana come Andreotti - ha colpito molto di più." (Alberto Crespi, 'L'Unità', 14 ottobre 2011)
"Piacerà a chi da anni ritiene Sorrentino il nostro maggior regista e qui ha una bella conferma (riesce a fare un film 'americano' come non molti americani saprebbero). E chi ritiene, come noi, che Sean Penn sia uno dei peggiori attori del mondo se gli tocca recitare una persona normale. Ma tra i migliori se gli danno un 'eccentrico' (qui è grande e osceno nella sua maschera da rocchettaro in disfacimento)." (Giorgio Carbone, 'Libero', 14 ottobre 2011)
"La solitudine e la scoperta, il viaggio e la metafora esistenziale, il rock, le passioni sopite e un mazzo di grandi attori per confermarsi regista capace di raccontare le parabole discendenti, come in Italia, pochissimi altri. 'This Must Be the Place' di Paolo Sorrentino è un magnifico film. Sean Penn interpreta Cheyenne. Rossetto, cerone, occhi tristi ed eloquio rallentato. Rock star 50enne in cantina per scelta volontaria, automa in un'irriconoscibile Dublino, alieno incapace di rimembrare il passato o proiettarsi nel futuro. (...) In un'America immobile, simile a un quadro di Hopper, guardare oltre la siepe equivarrà a rinascere." (Malcom Pagani, 'Il Fatto Quotidiano', 13 ottobre 2011)