Giovedì 30 marzo - Ore 21:00
Silence, l'atteso film sulla fede e la religione del regista premio Oscar Martin Scorsese, racconta la storia di due missionari portoghesi che nel XVII secolo intraprendono un lungo viaggio irto di pericoli per raggiungere il Giappone, alla ricerca del loro mentore scomparso, padre Christovao Ferreira, e per diffondere il cristianesimo. Scorsese dirige Silence da una sceneggiatura scritta da lui stesso con Jay Cocks. Il film, basato sul romanzo di Shusaku Endo del 1966, esamina il problema spirituale e religioso del silenzio di Dio di fronte alle sofferenze umane.
Regia: Martin Scorsese
Interpreti: Adam Driver, Andrew Garfield, Liam Neeson, Ciarán Hinds, Issey Ogata, Tadanobu Asano, Shinya Tsukamoto, Ryô Kase
Sceneggiatura: Jay Cocks
Fotografia: Rodrigo Prieto
Montaggio: Thelma Schoonmaker
Musiche: Howard Shore
Durata: 2 ore e 41 minuti
Ingresso 4.00 € - Il costo del biglietto
Per essere il film di una vita, Silence sembra assai poco un’opera di Martin Scorsese. L’ambientazione in un Giappone medievale, lontanissimo nel tempo e nello spazio dalle strade di Little Italy e dai suoi gangster; il ricorso a volti attoriali nuovi, con cui finora non aveva mai lavorato, in luogo dei soliti, fedelissimi alter ego (da De Niro a Di Caprio); l’approccio visuale sorprendentemente ieratico, contemplativo, più interessato alla composizione dell’inquadratura che al virtuosismo della ripresa e all’ipereccitazione della messa in scena. A pensarci bene però, la straordinaria carriera di questo regista è disseminata di mille variazioni sul tema, di continue sperimentazioni, di sincretismi originali. Già L’ultima tentazione di Cristo e Kundun, per dire, erano film di ambientazione assai particolare per il cineasta di Elizabeth Street. Il secondo, sorta di biopic sull’ultimo Dalai Lama, presentava anche interessanti varianti di poetica e stile: era la prima volta che Scorsese si misurava con un tipo di sensibilità agli antipodi rispetto alla sua e con le forme della spiritualità orientale.
Tuttavia, per capire meglio Silence, è da un altro film che bisogna partire, da L’età dell’innocenza, pure questo tratto da un romanzo e sceneggiato dal regista insieme a Jay Cocks. Già allora Scorsese aveva sfoggiato una regia incredibilmente controllata, un rigore compositivo e uno stile analitico al limite del maniacale, dove la compattezza geometrica della scena, la sua monolitica e non scalfibile realtà, costituiva il correlato oggettivo e formale di un implacabile sistema di regole sociali che mortificava e ingabbiava l’autentico sentire dei personaggi. Ecco, l’ingabbiamento. Lo vediamo all’opera più volte in Silence. Come una forza viva e disumana: quando i due preti gesuiti, i padres, arrivano clandestinamente in Giappone, in un villaggio di pescatori, e sono costretti a nascondersi in una capanna abbandonata di pietra e di paglia, per non dare nell’occhio. Poi quando vengono catturati e messi dentro una scatola di legno da trasporto; quindi quando vengono rinchiusi dentro una cella fatta di terra e di canne di bambù.
E anche Silence in fondo mette in scena la tragedia di un uomo arrogante. Un uomo convinto di poter cambiare il mondo, prima di soccombervi. Non è un caso che quell’uomo sia anche un uomo di Dio. Non lo era forse anche Charlie di Mean Streets, che si credeva erede di San Francesco? O Travis di Taxi Driver, determinato a ripulire quella fogna di città infernale che è la New York dei ’70, neanche fosse un angelo sterminatore? Personaggi votati alla causa, ma la causa di chi? Come rivela un altro dei grandi personaggi scorsesiani, il Frank/Nicolas Cage di Al di là della vita (altro film che sembra arrovellarsi nelle stesse questioni di questo), il confine tra ispirazione divina e allucinazione è pericolosamente sottile. Lo stesso Gesù del L’ultima tentazione non viene forse considerato un pazzo all’inizio? Chi può dire alla fine se la voce off che padre Rodrigues sente, o pensa di sentire, sia davvero quella di Dio e non invece la sua? Chi può stabilire se prima di calpestare il fumi, la tavoletta raffigurante il Cristo, il gesuita abbia davvero sentito la voce misericordiosa del Creatore o quella pavida della sua coscienza che gli intima di abiurare e di salvare così la vita, sua e quella di altri innocenti?
C’è questa insostenibile ambiguità della fede che attraversa Silence
dall’inizio alla fine. Dopotutto il film parte come una detection: due
gesuiti dovranno recarsi in Giappone per scoprire se davvero il loro
padre spirituale ha abiurato per salvarsi la pelle (i nipponici del
Seicento consideravano la buona Novella assai pericolosa). In realtà
l’oggetto di questa ricerca sarà la natura stessa del loro credere,
dunque di Dio. Scorsese coglie del romanzo di Endo, basato peraltro
sulla storica realtà dei lapsi (i preti apostati, letteralmente gli
scivolati, quelli che non ce l’hanno fatta a sopportare le persecuzioni
e hanno abiurato la loro fede), il nocciolo dei dilemmi che da sempre lo
coinvolgono. Fino a che punto, torna a chiedersi il regista, è lecito
seguire Dio se così facendo rechiamo sofferenza agli uomini? Vale di più
la misericordia – in fondo il comandamento supremo che Gesù trasmette ai
suoi discepoli, Ama il prossimo tuo come te stesso – o la fedeltà alla
Parola, che pure invita ad evangelizzare il mondo perché è Verità? La
questione non è solo teologica perché tocca qualsiasi ideologia e credo.
E’ anche assai moderna, sembra di leggere in filigrana i principali nodi
della Chiesa di Francesco, tormentata al suo interno da analoghe
questioni di natura etica e dottrinaria (pensiamo ai conflitti su
divorzio, eutanasia, aborto).
La soluzione optata da Scorsese è
se si può più problematica: per amore dell’uomo sì, si può e anzi si
deve rinnegare la propria fede. Meglio, occultarla. Rinunciare così
anche alla pratica della condivisione e dell’indottrinamento, in
definitiva all’eucarestia e al proselitismo. La fede deve restare come
confinata in una dimensione privata, meglio ancora se intima, interiore.
Il finale azzarda questo. Non che Scorsese neghi l’altra via, quella dei
martiri, il cui sangue come ci ricorda è il seme della Chiesa. Ma si
tratta anche in questo caso di una scelta individuale. Non a caso qui
tutto il destino della Chiesa in Giappone si riduce alla sorte di due
preti, che però prenderanno strade diverse. Scorsese sposta in ogni caso
la religione per far posto alla persona. Con tutte le contraddizioni e
le questioni aperte del caso.
Ad esempio, questi giapponesi che torturano e combattono i cristiani venuti dall’Europa, sono solo carnefici o stanno difendendo la loro identità culturale? Non è forse lo stesso problema sentito oggi in Occidente, nei rapporti tra le comunità autoctone e l’Islam? Continuare solo a invocare il multiculturalismo come panacea di tutti i mali non basta, non più. Silence è molto netto da questo punto di vista. C’è una scena emblematica in cui dei soldati giapponesi invitano i cristiani a calpestare l’effige sacra senza troppe cerimonie, ricordando loro che solo di immagine si tratta e non di quello che custodiscono dentro. Senza perciò comprendere che per un cristiano quella effige non è solo un’immagine, così come l’ostia non è soltanto un derivato del frumento. Per un cristiano Dio è vivente, è persona, è quell’immagine, è quel pane. C’è una componente materiale nella religione cristiana che un orientale di osservanza buddista non capirà mai. Perciò una mediazione che passi dal confinamento del cristianesimo in una sfera privata, intima, pone seri interrogativi sulla sua consistenza.
Assume allora un significato ambiguo quel silenzio perorato dal titolo: è la voce dell’abbandono di Dio, la dimensione dell’ascolto interiore o il destino della cristianità in terra d’Oriente?
E’ positivo che al cospetto di un discorso così interrogativo, scettico, esistenziale, Scorsese mantenga un tono distaccato, algido, come detto controllatissimo. Senza le solite carrellate, le classiche zenitali (ma almeno un paio ci sono), le proverbiali gimcane della mdp. Senza cercare mai la scorciatoia, l’empatia, lo spettacolo, senza prendere per mano lo spettatore (che si ritrova così nella medesima situazione del gesuita “abbandonato” dal Signore). Silence non è un film immediato. Va meditato. Visivamente è molto bello e molte scene hanno notevole qualità pittorica e potenza allegorica. D’altra parte i contributi tecnici di Rodrigo Prieto (fotografia), di Dante Ferretti e di Francesca Lo Schiavo (scenografia) non si discutono. Nulla da ridire nemmeno sul talento di Andrew Garfield e di Adam Driver o sulla maestria di Liam Neeson, ma mai come stavolta il peso dell’attore deve fare i conti con una messa in scena dall’ingegneria implacabile. Scorsese rimesta nelle sue conoscenze del cinema nipponico – Kobayashi, Mizoguchi, Ozu e Kurosawa – facendone non tanto un’indicazione geografica (siamo in Giappone dopotutto) ma la chiave di volta formale e ideale di tutta l’operazione: il mondo vince sempre, però non c’è singolarità che, pure se ingabbiata, venga assimilata del tutto. Qualcosa di unico, vitale, resta sempre. Questo vale persino nel grande cinema mainstream, che Scorsese continua a frequentare senza mutarsi, infilandovi semmai una volta di più il virus dell’autorialità, incubando pezzi di pensiero, di poetica personale. Vivendo la contraddizione, facendone alimento creativo, antidoto a una coerenza marginale. Rischiando, tra la fedeltà a Dio e quella verso gli uomini, ancora la seconda. Scegliendo comunque di rimanere fedele a se stesso. (Gianluca Arnone)
"A tu per tu col mistico, il regista ostenta una visionaria, oscura potenza scenografica fra paesaggi da Mizoguchi e pene dantesche: ma il contrappasso lo paga di persona scegliendo una materia scomoda. La sincera sofferenza dell'autore che invita a 161 minuti di raccoglimento s'immola di fronte all'action di un cinema dove c'è sempre stata colpevole sofferenza, fra i bravi ragazzi del ragù e taxi driver. Film solenne e cinico proprio nel non sentire l'audio di Dio 'Silence' pare il kolossal cult di un regista che, in astinenza di fede, fa un film sul non trovarla, tradirla, offenderla. Perché gli uomini, come ha dimostrato nel suo cinema, non la meritano. Paesaggi e volti meticolosamente perfetti con l'ex 'Spiderman' Andrew Garfield, l'ex 'Paterson' Adam Driver e Liam Neeson, apostata taglia L." (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 12 gennaio 2017)
"Più ancora del controverso 'L'ultima tentazione di Cristo' (1988) e dell'orientaleggiante 'Kundun' (1997), 'Silence' è il film che con l'immediatezza di un classico porta alla luce l'urgenza spirituale che da sempre sostiene il cinema di Scorsese, in un confronto serrato tra colpa e perdono, caduta e redenzione, angoscia e misericordia. Ed è, insieme, un omaggio neppure troppo velato alla lezione cinematografica dell'indimenticabile Akira Kurosawa, che già nel 1990 aveva voluto Scorsese nel cast di 'Sogni'. Addirittura meticoloso nel rispetto del suo modello letterario, 'Silence' si distacca dal libro di Endo per un minimo dettaglio dell'inquadratura finale. Un'immagine, certo. Non potrebbe essere altrimenti." (Alessandro Zaccuri, 'Avvenire', 12 gennaio 2017)
"Si capisce che il regista di 'Mean Streets' e 'L'ultima tentazione di Cristo' volesse portare sullo schermo 'Silence' da decenni. Ed è quasi un peccato che ci sia riuscito solo oggi. Con i tempi che corrono infatti il romanzo pubblicato nel '66 dal cristiano giapponese Shusaku Endo (...) sembra alludere alle guerre più o meno di religione che insanguinano il pianeta. E tutte le sue torture e decapitazioni, sia pure filmate con stile ieratico e sapiente da uno Scorsese sorvegliatissimo, suggeriscono paragoni inevitabili ma anche fuorvianti. (...) Ma il cuore dell'ambizioso quanto irrisolto 'Silence' è altrove. È in questa parabola che sembra ripercorrere quella di Gesù (c'è anche un Giuda nipponico, traditore e insieme agente del destino), come appunto crede il personaggio di Garfield, salvo poi ribaltarsi nel dubbio più destabilizzante. O forse è in quell'impossibile incontro tra i due missionari (ma Driver chissà perché sparisce quasi subito lasciando il campo all'acerbo Garfield) e quella civiltà sofisticata ma pronta a difendersi con ogni mezzo dall'arroganza dei colonizzatori cristiani. E' anche questa voluta ambivalenza a rendere a tratti faticoso, malgrado le molte scene mirabili, questo film solenne, complesso ma qua e là perfino didascalico, che cerca di abbracciare le prospettive più diverse, anche visivamente (da Kurosawa a Pasolini senza dimenticare il miglior Malick, che occhieggia dietro la bellezza 'divina' di gatti e lucertole). Ma più che alla visione del mondo e agli inevitabili rovelli dei cristiani, curiosamente, regala forza e fascino ai molti personaggi giapponesi, i migliori in campo, e non solo per merito degli attori ma della sceneggiatura (da citare almeno l'inquisitore mellifluo Issei Ogata, straordinario, e il martire crocefisso sugli scogli, il grande regista di 'Tetsuo', Shinya Tsukamoto). Se ne esce divisi fra opposte sensazioni. Quella di non aver capito tutto, e quella di aver afferrato fin troppo bene il messaggio. Il peggior nemico della fede è il fanatismo, in ogni epoca e paese, d'accordo. Ma oltre che alle idee avremmo voluto appassionarci davvero ai personaggi." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 12 gennaio 2017)
"Ci sono film che solo certi registi si possono permettere. Uno è senz'altro Martin Scorsese, che una carriera costellata di capolavori autorizza a fare un po' quel che vuole. Cosi Martin ha potuto utilizzare un grande cast, un pluripremiato professionista come Dante Ferretti e un ricco budget per creare un film grave e intransigente, che non accarezza mai il pubblico nel senso del pelo. E comunque anche lui ha dovuto attendere molti anni, perché il progetto di adattare il romanzo dello scrittore cattolico giapponese Shusaku Endo lo coltivava già dai tempi dell' 'Ultima tentazione di Cristo'. Se con quel film, da alcuni giudicato provocatorio, il regista indagava il dissidio tra fede e tentazioni della carne, con 'Silence' si piega invece su un argomento che da sempre ossessiona l'ex-seminarista Scorsese: il silenzio di Dio. (...) 'Silence' è un film di una bellezza inquieta e insieme sommessa. Spesso le immagini sono avvolte nella nebbia; però acquistano una grande potenza drammatica nelle sequenze di martirio (con l'acqua, il fuoco, per dissanguamento) e, talvolta, sfumano nell'onirico, come nella scena del villaggio distrutto popolato solo di gatti. Certo non è un film per tutti i gusti, la sua severità sarebbe piaciuta a un maestro come Carl Theodor Dreyer. E alcuni momenti (soprattutto all'inizio della seconda parte) si dilungano troppo, tra discussioni teologiche ed episodi ripetuti, come quello del sosia giapponese di Giuda. Ma se chi predilige un cinema più dinamico non si convertirà, probabilmente, grazie a Scorsese, potrà almeno apprezzare l'ottima interpretazione di Andrew Garfield e della sua 'spalla' Adam Driver. O il cameo di Liam Neeson che, col codino e il kimono, sembra tornato a quando faceva il maestro jedi Qui-Gon Jinn in 'Star Wars'." (Roberto Nepoti, 'La Repubblica', 12 gennaio 2017)
"Ispirandosi al romanzo di Shusaku Endo (...) che da circa trent'anni progettava di trasporre sullo schermo, Martin Scorsese - regista cattolico, ma di un cattolicesimo tormentato da un dostoevskiano novello sull'ambiguo confine fra Bene e Male - firma con 'Silence' un'opera indubbiamente sentita e voluta, che tuttavia lascia perplessi. Se la complessità dei temi toccati - forza delle fede e umana fragilità, contrapposizione occidente e oriente, proselitismo e colonizzazione - è indiscutibile; se il modo con cui l'odissea di Sebastian si traduce in percorso spirituale nella nebbia del dubbio è improntato al massimo rigore; se la fotografia di Rodrigo Prieto e le scene di Dante Ferretti vanno a configurare con plumbea suggestione un paesaggio storico che è anche un paesaggio dell'anima: resta che questo conclusivo capitolo dell'ideale trilogia religiosa iniziata da Scorsese con 'L'ultima tentazione di Cristo' e proseguita con il buddistico 'Kurdun', suscita più rispetto che emozione. Probabile che il film necessiti una seconda lettura, ma esiste il problema di una sceneggiatura che a volte scade nell'apologetico, e non confida abbastanza nel suo protagonista. Fosse stato fino in fondo il centro umano e morale della storia, l'ansioso confrontarsi di Sebastian con il silenzio di Dio ci avrebbe inchiodato e avvinto." (Alessandra Levantesi Kezich, 'La Stampa', 12 gennaio 2017)
"Non c'è forse bisogno di ripetere che il concetto di «difficile» (irto, faticoso, severo, arduo) riferito a un film non comporta l'obbligo di acclamarlo per dispetto allo spettatore generico né di esorcizzarlo come se fosse la peggiore disgrazia per chi entra in una sala. «Silence» (...) è un'opera grandiosa, ma estremamente impegnativa, l'audace esplorazione di fatti e temi poco frequentati dal cinema mainstream, un'esperienza che non fa sconti a nessuno, a cominciare dallo stesso regista e una riflessione niente affatto conciliante o consolatoria su uno degli snodi più dilanianti e distruttivi dell'odierno (dis)ordine mondiale. Sia che lo si ritenga, corna hanno sostenuto in molti, uno dei film meno scorsesiani, sia, come hanno fatto altrettanti, l'inevitabile, suggello del suo cinema, non si può negare che «Silence» sia uno di quei titoli che è impossibile affrontare alla leggera: (...), la parabola cristologica ripercorre la traccia romanzesca del 'Cuore di tenebra' conradiario per approdare, però, a una concentrazione assoluta in cui lo scandalo e il mistero della Fede riescono a diventare le uniche chiavi formali e ideali della messinscena. La linearità della trama concorre a questo risultato monacale e nello stesso tempo i monumentale (...). Il silenzio, che il regista usa per estremizzare la tensione di un percorso che travalica le componenti esotiche e spettacolari - che pure hanno loro peso grazie ai superbi contributi della scenografia del duo Ferretti-Lo Schiavo, la fotografia di Prieto e la colonna sonora di Kathryn e Kim Allen Kluge - verrà interrotto solo quando la determinazione dei sacerdoti li condurrà in un inferno di torture e marchi, quasi l'autocitazione di un film spiazzante e discusso come «L'ultima tentazione di Cristo»." (Valerio Caprara, 'Il Mattino', 12 gennaio 2017)
"Dopo un film sull'ebbrezza della religione del capitalismo, un film sul tormento di quella di Cristo. Da quello che era stato descritto come «l'equivalente stilistico di un mix di cocaina e Viagra» a una serie di austeri, dolorosissimi, tableaux vivents impregnati dei neri abissali della fotografia di Rodrigo Prieto e delle lacrime di sofferenza dei martiri. Dall'energia febbrile dei cartoni animati, ad Akira Kurosawa filtrato da Goya. Martin Scorsese approda al progetto che voleva realizzare da trent'anni, un 'Cuore di tenebra' annidato nel Giappone del XVII secolo, durante le purghe religiose contro i missionari cristiani e i loro adepti. (...) Se, come ha detto Scorsese più volte, questo è un film che voleva fare già da quasi trent'anni, è facile vedere la battaglia interiore di Rodrigues, i suoi dubbi, come un'evoluzione, o uno sviluppo, di quelli che agitavano il Cristo/Willem Dafoe, di 'The Last Temptation of Christ' (1988), il contestatissimo Vangelo secondo Scorsese, boicottato all'uscita Usa, ne11988 - così come in Italia. Da allora a oggi, il regista di 'The Wolf of Wall Street' e 'Goodfellas' è tornato sulla religione (la sua vocazione da ragazzo, prima del cinema) più volte, in modo diretto, in 'Kundun', e indiretto, ma altrettanto profondo, in 'Bringing Out the Dead', tutt'ora uno dei suoi film più belli e «cattolici». Forse inevitabilmente, dalla prima lettura del libro di Endo, con gli anni, e i film, è come se Scorsese avesse già superato, se non proprio risolto, alcuni dei quesiti del protagonista di 'Silence' che lo avevano così coinvolto da giovane. Infatti, nonostante la bellezza delle immagini, il film decolla veramente solo nella sua seconde parte, quando Rodrigues viene catturato, imprigionato e messo a confronto diretto con il grande inquisitore Inoue (Tabadanobu Mano). In un nascondino tra gatto e topo, coreografato magnificamente, Scorsese inizia qui la conversazione sulla religione che sembra veramente interessarlo oggi. Una conversazione che spazia dai temi del colonialismo all'arroganza dei «puri» e che avrà - nel bellissimo incontro tra Rodrigues e Ferreira - e nell'ultima immagine del film - la cristallizzazione perfetta del punto d'arrivo di un percorso lungo trent'anni." (Giulia D'Agnolo Vallan, 'Il Manifesto', 12 gennaio 2017)
"Chiusura di un'ideale trilogia della fede dopo 'L'ultima tentazione di Cristo' e 'Kundun', 'Silence' denuncia i sintomi della schizofrenia: da un lato, è come se il progetto si fosse compiuto per intero già al primo ciak, semplicemente andando sul set dopo cinque lustri passati tra carte e scartoffie; dall'altro, per gran parte sembra essere rimasto nella testa di Scorsese. Sono i pericoli del mestiere, quello lungamente disperante e largamente gratificante del cinema. 'Silence' è il film che più di ogni altro Scorsese voleva fare, e in questa volontà rischia di esaurirsi: non perché sia brutto, piccolo o non ammirevole, per carità, ma è chiuso, punitivo, a tratti financo autistico. (...) Nonostante il voltaggio spirituale si dia per assunto, e sebbene personalmente Scorsese confidi massimamente nella Grazia, 'Silence' è un film orizzontale: non solo per assecondare il viaggio di Rodrigues e Garrpe, bensì perché la trascendenza è affossata - Garfield non ce la fa, e uno stile classico insolito per Scorsese non aiuta, sebbene con Ozu, Bresson e Dreyer si direbbe il contrario - oltre le intenzioni, e analogamente la macerazione, il dolore di Rodrigues e Garrpe latitano di profondità. Insomma, al piano scorsesiano manca l'ordinata. E non è finita: se il personaggio più interessante - e teologicamente sfidante - del film, quel 'traditore' Kichijiro (Yôsuke Kubozuka) che è per metà Giuda e per metà Gesù, evoca preminenti 'figurae Christi' della Storia del Cinema, nonché lo stesso Johnny Boy (Bob De Niro) di 'Mean Streets', Scorsese difetta di radicalità. Nel 'Cattivo tenente' Abel Ferrara osò mettere il Cristo e Harvey Keitel nella stessa inquadratura (leggi, 'kenosis'), qui il silenzio - e la visione di Rodrigues del Cristo di El Greco - sa di sordina." (Federico Pontiggia, 'Il Fatto Quotidiano', 12 gennaio 2017)
"Dal romanzo di Shusaku Endo 'Silence', è il frutto di un'enorme ricerca versata in una capillare, ragionata visione scenografica (Dante Ferretti) e umana (dalle lettere dei missionari del '600) del tempo (...). Va superata, come una salita necessaria al monte Verità, la prima parte sulla tetra, spiritualmente ispirata, clandestinità tra le comunità cristiane. Nella seconda, le torture e i ricatti a Rodrigues (ottimo Garfield), la pragmatica ambiguità del 'Giuda' Kichijiro, lo scontro teologico con l'Inquisitore, aprono la domanda sul silenzio di Dio alla scelta della fede come silenzio. Avventuroso e profondo." (Silvio Danese, 'Nazione-Carlino-Giorno', 12 gennaio 2017)
"Il silenzio del titolo è quello di Dio. Che (da sempre) mette a dura prova anche le fedi più rocciose. Il dilemma (da sempre) è: Dio non parla perché non esiste. Oppure c'è, e ti è sempre accanto, come un amico che ti sta vicino, non interloquisce, ti lascia parlare ed agire, ma ti fa sempre e comunque sentire il suo conforto? Il libro di Shusako Endo che ha fornito lo spunto al film, e Martin Scorsese che lo ha messo in immagini dopo una gestazione che dicono trentennale, sembra propendere per la seconda ipotesi. Dio c'è e in ogni momento cammina accanto ai protagonisti, i gesuiti Rodrigues e Garupe, anche se li vediamo ogni momento attanagliati dai dubbi e (presto) dalla disperazione. (...) Piacerà anche ai non pochi diffidenti. Scorsesiani di lunga data che però trovano motivi di perplessità ogni volta che Martin esce dai suoi recinti (non pochi ricordano l'escursione orientale di 'Kundun' come il top della noia firmata Scorsese). 'Silence' per fortuna non annoia." (Giorgio Carbone, 'Libero', 12 gennaio 2017)
"II silenzio (apparente) di Dio. Quante volte, da cattolici, si è implorato un segno davanti al male, alla persecuzione, all'ingiustizia, accusando il Padreterno di disinteressarsi delle nostre vicende terrene, mettendo, addirittura, in discussione la sua reale esistenza. Scorsese riflette su questo aspetto fondamentale nella vita di un credente, mettendo un'altra pietra angolare alla sua cinematografia tormentata sul concetto di vocazione e terrore del fallimento, senza dare risposte definitive (anche la sua è una evidente ricerca del divino), ma offrendo tanti spunti di discussione anche per chi non abbia (apparentemente) fede. (...) Scorsese opta per una messinscena lineare, lenta, dilatata, puntando molto sugli aspetti intimi. I 161 minuti di durata, però, risultano eccessivi e controproducenti. In ogni caso, è un film attuale, che colpirà, in particolare, la sensibilità del cinefilo cattolico." (Maurizio Acerbi, 'Il Giornale', 12 gennaio 2017)