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L'impressionante ascesa e caduta di Jordan Belfort: broker di New York che tra gli anni Ottanta e Novanta conquista una fortuna incredibile truffando milioni di investitori. Giovane "nuovo arrivato" a Wall Street, Belfort si trasforma ben presto in un corrotto manipolatore dei mercati e della Borsa, conquistando rapidamente una ricchezza enorme che utilizza per togliersi ogni sfizio che la vita possa offrire: donne, droghe, automobili, yacht, una moglie supermodella... Una vita leggendaria fatta di aspirazioni e acquisti senza limiti fino a quando la sua società, la Stratton Oakmont, attira l'attenzione della SEC e dell'FBI...
Regia: Martin Scorsese
Interpreti: Leonardo DiCaprio, Jonah Hill, Margot Robbie, Matthew McConaughey, Kyle Chandler, Rob Reiner, Jon Bernthal, Jon Favreau, Jean Dujardin, Joanna Lumley, Christine Ebersole
Sceneggiatura: Terence Winter
Fotografia: Rodrigo Prieto
Montaggio: Thelma Schoonmaker
Musiche: Howard Shore
Durata: 2 ore e 59 minuti
Parabola sul Capitale debordante, esagerata, degenerata e, sì, empatica: il Best Of di Scorsese/Di Caprio
Scordatevi Gekko, scordatevi l’ impomatata borghesia della finanza, scordatevi Stone. Attenti al Lupo. A Belfort e al suo accrocco bestiale di leoni rampanti e scimmie ubbidienti . Questa è storia (1987-1997): con nomi e cognomi. Questo è The Wolf of Wall Street.
Agile, illuminante, pantagruelico vademecum di come va il mondo laggiù, tra manipolatori di titoli e sciacalli, prostitute e prestanome, corruttori e corrotti. Sodoma e Gomorra insieme, la Borsa, l’America, il “fugazi” transazionale, il Nulla a sei zeri che si fa e si distrugge (copyright Matthew McCounaghey). Di Caprio & Co., la melma socio-culturale del nostro pimpante e radioso Occidente. La feccia, sottoproletariato spregiudicato e arraffone che anticipò, ispirò, Lehman Brothers e mutui subprime. La costola scoperta del capitalismo.
Come sono semplici le cose: quotazioni, spread, derivati e commissioni vengono ridotti a QI basico: banalissima illegalità. Non sorprende il primato, il più alto numero di “fuck” (567) mai pronunciati: questo film è tutto un “fottere” - fotti o sarai fottuto! - c’è altro sotto la bandiera che gagliarda sventola polvere di stelle e strisce di coca? A sentire Belfort, il Robin Hood che rubava per se stesso, non può, e anche se ci fosse lo si vorrebbe davvero?
Venuto dal niente, miliardario a 26 anni, in rovina a 36, Belfort è l’eroe senza mantello di ogni pastorale americana, un riuscito prodotto sociale. Forse eccentrico, chiassoso, drogato - la “dipendenza” è il motore di una cultura disperatamente legata al circolo della domanda e dell’offerta, del bisogno e della soddisfazione - però americano fatto e finito. Busta paga a parte, nessuna differenza con l’affabile agente Fbi che sogna come lui, rosica e cerca di “fregarlo”.
America, paese di frustrati e di furbi , dove ciò che conta non è quel che sei, ma come (non cosa) vendi. Volete capire un po’ della seduzione e del ribrezzo per questo paese? Vedete The Wolf of Wall Street, o delle sottigliezze della morale. Un baccanale tramortente, una parabola di ascese gloriose e fetide cadute, mai vista così debordante, esagerata, degenerata e, sì, empatica. Difficile separarsene, disintossicarsi.
Scorsese strappa via tutte le foglie di fico del Capitale, ci costringe a guardarlo per quello che è, frutto proibito dall’albero del male: chi non vorrebbe mangiarne? Non condanna, non assolve, non rinuncia alla pietas. Belfort – probabilmente il the best of Di Caprio – è uno di noi, anzi è uno che tanti di noi avrebbero voluto essere.
Dopo tre ore di sniffate, orge e risate, ritroviamo il lupo ancora in sella mentre cerca di insegnare a un popolo di sfigati come si fa a vendere una penna. La stessa che ha venduto a noi perché scrivessimo in calce un’unica parola: capolavoro. (di Gianluca Arnone)
"Il più cinefilo dei registi, quello che nel suo ultimo film ('Hugo Cabret') aveva fatto sognare lo spettatore portandolo dentro la magia della creazione cinematografica, gioca in contropiede e ribalta tutto con 'The Wolf of Wall Street' (ma perché non tradurlo in italiano? Ah, irrecuperabile provincialismo italiota!) sottolineando fin dall'inizio del film - con la foto fissa del nano-proiettile - la scelta di rompere le regole della finzione e ogni patto di credibilità narrativa. Il protagonista, affidato a un Leonardo DiCaprio volutamente sopra le righe, interviene nell'oggettività del racconto per fermarla e commentala in prima persona, rivolgendosi direttamente allo spettatore con il più «imperdonabile» dei peccati cinematografici: non solo guardando, ma anche parlando in macchina! E non una sola volta. A un certo punto addirittura, mentre spiega i meccanismi di una delle sue truffe, si arresta sul più bello perché «voi (cioè il pubblico) non potreste capire» e lascia chi sta in sala nella propria ignoranza. Il ribaltamento non potrebbe essere più radicale, e si spiega con la scelta di fare un film tutto «dentro» il suo protagonista. Non la storia di un uomo - come erano stati Travis Bickle o Jack LaMotta o Henry Hill - che arriva a capire qualcosa di sé attraverso il confronto con la realtà. Ma nemmeno l'altra faccia di «Asso» Rothstein, il puntiglioso giocatore d'azzardo che messo a capo di un casinò di Las Vegas spera di farsi una reputazione senza macchie. No, 'The Wolf of Wall Street' non vuole raccontare nessuna «scoperta di sé» ma solo mostrarci un uomo che ha trovato il modo di fare i soldi più in fretta e meglio degli altri. E illustrarci i suoi piaceri. Un ritratto della «follia» che spinge gli uomini a fare qualsiasi cosa pur di accumulare denaro, perché negli anni Ottanta di Ronald Reagan il «diritto alla felicità» di jeffersoniana memoria è diventato il «diritto alla ricchezza». (...) L'occhio di Scorsese non si punta sul denaro (come nella prima, straordinaria ora di 'Casinò') ma sui benefit che genera: belle donne, droghe, case principesche, automobili fuori serie. Non vediamo mai Belfort lavorare ma solo godere dei suoi guadagni. E nel modo più sconclusionato possibile, parossistico e anestetizzante insieme. Cocaina e Quaalude, eccitanti e calmanti mescolati in dosi «sufficienti a sedare un intero stato di medie dimensioni», come scrive lo stesso Belfort nel libro autobiografico (pubblicato dalla Bur) alla base del film. Persino il tentativo di esportare illegalmente i guadagni in Svizzera sembra uscito dalla mente del fratello scemo dei soliti ignoti, non da un genio (perverso) della finanza. Ma in questo modo il film perde intensità e forza: tre lunghe ore tutte addosso al protagonista, senza mostrare cosa gli ha permesso di comportarsi così o chi ha creduto alle sue promesse. Il Belfort di DiCaprio sembra il burattino di se stesso che, raccontato coi toni della commedia, finisce per essere ancora più inconsistente. Neanche fossimo in un film di Apatow. Certo, ogni tanto le qualità che hanno reso grande Scorsese si vedono. La sua vorace cinefilia (l'ingresso della banda per la festa aziendale con donnine al seguito cita esplicitamente 'Quarto potere'), i suoi scarti di ritmo e di stile (la lotta in cucina per togliere il telefono al socio Donnie, tra farsa e catastrofe), la forza di certe inquadrature (gli sguardi dei poveracci in metropolitana dopo la condanna di Belford, pronti a farsi infinocchiare dal primo venditore di «sogni» che li avesse intercettati) ma sono piccoli momenti che annegano in un film che assomiglia troppo a un passo falso. Dove Scorsese dà l'impressione di aver perso controllo e ispirazione, cancellando quella capacità di riflettere sul Male e sulla Morte che avevano fatto dei suoi film dei capolavori." (Paolo Mereghetti, 'Corriere della Sera', 20 gennaio 2014)
"Il cinema americano non è mai stato tenero con il mondo della finanza, né con il suo tempio, che è anche il suo mito, Wall Street. Basterebbe a dimostrarlo quel film di Oliver Stone alla fine degli Ottanta che si intitolava appunto 'Wall Street'. Ne era protagonista, con la grinta dura di Michael Douglas, un operatore di borsa che, di origini modeste, con gli inganni e con le frodi ai danni anche di poveri diavoli, aveva accumulata una fortuna immensa. In quel personaggio tutti avevano riconosciuto, sia pure sotto un altro nome, una delle figure più esecrate ma anche temute che spadroneggiava nella finanza di allora violando sempre la legge, Jordan Belfort, così soddisfatto di sé e dei soldi che raccoglieva a palate anche soltanto con una di quelle telefonate subdole ma furbescamente persuasive, da scrivere addirittura un libro sulla sua vita e i suoi successi in cui si definiva da solo 'Il lupo di Wall Street'. Da quel libro, il film di oggi, intitolato proprio a lui, diretto fulmineamente da Martin Scorsese, scritto, anche con sarcasmi, da Terence Winter, il noto autore televisivo dei 'Sopranos', e interpretato da Leonardo DiCaprio, con cipigli tali da poter preconizzargli adesso quell'Oscar che da anni gli sfugge. La storia, desunta dal libro, è nelle sue grandi linee, proprio quella di Jordan Belfort, riletta però in cifre di commedia nera, innestandovi tutto quello che poteva servire a vestire di luci fosche l'orrido personaggio al centro, il suo ambiente sregolato e corrotto (...). La regia di Scorsese, sempre più travolgente, si è precipitata al galoppo su queste vicende, dando spazi addirittura con violenza alle pagine di sesso, rappresentando con furbizie e dialoghi spesso ironici quelle costruite sulle imprese finanziarie, con immagini forti, ritmi che non tollerano pause, un sonoro e delle musiche sempre volutamente assordanti. Affidando ogni elemento a un vero e proprio Maelstrom, o, se si preferisce a uno tsunami che, comunque salva anzi esalta le esigenze del cinema. Le salva e le esalta anche l'interpretazione di DiCaprio. Intanto con la voce, nell'edizione originale, ringhiosa e feroce proprio come quella di un lupo, poi per la forza imperiosa di una mimica che in ogni momento riesce ad esprimere del personaggio la sua abiezione, la sua fame di soldi, di sesso e di droghe. Fino alla perfezione." (Gian Luigi Rondi, 'Il Tempo - Roma', 21 gennaio 2014)
"(...) la sostanza di un'opera d'arte, soprattutto quando ricrea una storia vera che sembra finta, è sempre nel tono, nello stile, nell'approccio morale. E qui nascono mille dubbi. 'The Wolf of Wall Street' dura quasi tre ore ed è stilisticamente mirabolante: ad ogni sequenza Scorsese si inventa soluzioni narrative e movimenti di macchina funambolici, e nessuno mette in dubbio la straordinaria bravura di DiCaprio e di tutto il cast. Il problema sta nel punto di vista, che in un film del genere è tutto. Fin dall'inizio tutto avviene «dentro» Jordan Belfort: addirittura, dopo i loghi della produzione compare il logo della Stratton Oakmont, la società di Belfort, che per qualche istante sembra aver prodotto il film... prima che ci rendiamo conto che si tratta di uno spot «interno» alla trama. La storia è narrata da Belfort/DiCaprio, che si rivolge in macchina - quindi, a noi spettatori - addirittura compatendoci perché non possiamo capire i complessi meccanismi finanziari che lo hanno portato a guadagnare tutti quei soldi. Ed è vero: come già in Wall Street di Oliver Stone, la finanza è troppo bizantina per essere raccontata al cinema. Noi vediamo solo Belfort diventare straricco e spendere milioni di dollari in orge, droghe assortite e prostitute d'alto bordo. Alla quinta orgia, tutto diventa di una noia mortale. I 569 «fuck» (la parolaccia inglese universale) pronunciati nei dialoghi, che qualcuno si è dato la briga di contare, accentuano il senso claustrofobico e ossessivo di una storia tragica che Scorsese qua e là racconta come una barzelletta. I problemi del film in realtà sono due. Uno, secondario da un punto di vista meramente artistico, è il giudizio morale - non moralistico! - sul personaggio. Ogni spettatore deve farsi la sua idea, ma è sorprendente quanto Scorsese e DiCaprio rendano Belfort una simpatica canaglia, amato dai suoi dipendenti e capace di tutto per loro (mentre le vittime non sono mai, dicasi mai in scena). Non a caso Christina McDowell, figlia di uno dei soci poi «venduti» da Belfort, ha scritto una lettera aperta agli autori: «Voi siete gente pericolosa. Il film è l'ennesimo tentativo maldestro di rendere simpatico e divertente un mondo di banditi. Che modello culturale rappresentate? State dalla sua parte, consacrate l'ossessione paranoica per i soldi». La signora è parte in causa e forse esagera, ma è difficile darle completamente torto. L'altro problema è invece artistico in senso stretto: nel film - nella vita, non sappiamo - Belfort e i suoi accoliti sono abili nel far soldi ma ancora più abili nel rovinarsi, sono sostanzialmente dei cretini che pensano solo al dollaro, al sesso e alla droga. L'unico personaggio non grottesco è l'agente dell'Fbi, che non a caso è quel che si definisce una «tinca», una figura grigia per la quale Scorsese non sembra provare alcun interesse. A questo punto i casi sono due: o Belfort è tutt'altro che un cretino e si racconta come tale per non pagare il dazio, oppure Wall Street e il capitalismo tutto sono in mano a una cricca di deficienti schizzati e sessuomani. La seconda ipotesi, va da sé, è la peggiore." (Alberto Crespi, 'L'Unità', 22 gennaio 2014)
"È stato DiCaprio a fissarsi nell'idea di portare sullo schermo la storia di un vero gangster-finanziere, vedendo nella sua parabola la metafora della sfrenata corsa all'arricchimento degli anni 80-90. Ma non è un film moralizzatore come 'Wall Street' di Oliver Stone. È una full immersion nella pazza biografia di 'un Caligola moderno'. A suo modo candido e innocente, malgrado il non fermarsi di fronte a nessuna sfrenatezza, a nessun eccesso, a nessuna bulimica manifestazione del più feroce reclamare tutto e subito, intransigente nell'applicare un coerente vademecum di rapina, nella fedeltà a una sicura religione: prendere a tutti all'unico scopo di arricchire se stesso fino a scoppiare. Rappresentazione della bolla finanziaria che del surplus energetico del protagonista - da cartone animato, da comica finale - fa il proprio codice estetico. L'effetto è travolgente, malgrado le tre ore di durata. Ma tanta sfrontatezza, e tanta comicità, non sembrano appartenere a Scorsese. Chissà che proprio questa volta, con un film per lui così anomalo, non finisca per aggiudicarsi quell'Oscar al miglior film che mai ha ricevuto prima." (Paolo D'Agostini, 'la Repubblica', 23 gennaio 2014)
"Impossibile parlare di 'The Wolf of Wall Street' (...) senza tener conto del dibattito che ha acceso negli Stati Uniti. II cui nocciolo è il seguente: è moralmente corretto portare sullo schermo, senza alcun (almeno apparente) filtro critico, le plateali gesta di un truffatore tossicomane e sessuomane? Non si rischia di farne la celebrazione? Soprattutto se il film è firmato da un maestro del cinema come Martin Scorsese e se il personaggio è impersonato da un divo con la faccia d'angelo come Leo DiCaprio. Dopo averci dato in pellicole come 'Quei bravi ragazzi' e 'Casinò' uno spaccato indimenticabile del microcosmo mafioso, il cineasta ci introduce ora nel mondo della finanza corrotta tramite un suo vero protagonista, Jordan Belfort, autore del libro di memorie (edito da Bur) cui si ispira la sceneggiatura di Terence Winter (anch'essa nominata). Dove il lupo del titolo, in realtà un affarista d'assalto mai entrato nel salotto buono di Wall Street, racconta della sua ascesa e caduta sull'arco del decennio 1987/1997, confessando di sé con allegra impudicizia la sete di potere, la brama di denaro, gli imbrogli e il dissoluto stile di vita fra orge, alcool, e droghe pesanti a volontà. La nostra impressione è che Scorsese sia rimasto colpito non tanto dal personaggio, quanto dal quadro d'insieme che emerge dallo spaccato di vita. Una società dove un tipo del genere può crescere e prosperare, portandosi come un debosciato nella sicurezza di restare impunito, è una società scoppiata, una società in piena fase di decadenza; e, per rispecchiarla, il film non poteva che essere demenziale, grottesco, eccessivo. Esemplare in tale senso il magistrale assolo in cui il broker Matthew McConaughey spiega le regole d'oro del mestiere: pensare solo a mettersi i soldi in tasca e lenire lo stress con droga e masturbazioni. Sniffando, fornicando a volontà e fomentando in lunghe tirate i suoi accoliti, DiCaprio incarna il protagonista in chiave di straripante vitalismo come se volasse su una montagna russa, restando un personaggio che si risolve tutto nell'azione. Ma nel loro rutilante squallore, alcune scene di questo film sferzante seppur disuguale rimarranno nella storia del cinema." (Alessandra Levantesi Kezich, 'La Stampa', 23 gennaio 2014)
"Era ora. E, a dire il vero, ormai non ci si sperava più. Che Martin Scorsese potesse nuovamente ascendere al cielo dell'assoluto cinematografico, se per una volta c'è concessa l'iperbole, sembrava ormai una faccenda da ascrivere al novero dell'improbabile. Dopo 'Gangs of New York', Scorsese si è sottoposto a una penitenza autoinflitta in funzione dell'ottenimento di una rispettabilità hollywoodiana per la quale ha sacrificato hybris e visionarietà. Insomma, Scorsese si è autocondannato al Purgatorio per i suoi peccati cinematografici, nella speranza che i custodi del Paradiso hollywoodiano si decidessero finalmente ad accoglierlo. Così, se si esclude parzialmente 'The Aviator', c'è ben poco che valga davvero la pena di salvare nell'intervallo che da 'Gangs' s'estende sino a 'Hugo Cabret'. I doc su George Harrison e Bob Dylan sono un discorso a parte. A rendere la sofferenza ancora più acuta, la collaborazione con Leonardo DiCaprio, attore immenso le cui qualità esaltavano negativamente le mancanze di film come 'The Departed' o 'Shutter Island'. Così mentre piccoli Scorsese spuntavano un po' ovunque, quello vero, soddisfatto della svolta della sua carriera, sembrava rintanato nel perimetro delle proprie certezze. Eppure, sin dalle prime notizie trapelate intorno alla lavorazione del film, era evidente che sperare che 'The Wolf of Wall Street' potesse segnare un parziale ritorno di forma del nostro era lecito e non solo un atto fideistico. Come un Prometeo finalmente libero delle sue catene, Scorsese ruggisce con tutto l'orgoglio di cui è capace un uomo che vanta fra i suoi capolavori titoli come 'Toro scatenato' e 'L'ultima tentazione di Cristo'. Un film che sembra riallacciarsi direttamente a 'Casinò' e condurne a compimento il surreale cubismo formale, probabilmente la punta più avanzata del modernismo hollywoodiano. Nel portare sullo schermo l'autobiografia di Jordan Belfort, broker senza scrupoli, al cui confronto Gordon Gekko è un idealista frankcapriano, Scorsese è come inebriato dalla rinnovata fiducia nel suo furore creativo. E, finalmente!, la collaborazione con DiCaprio gira a pieno regime. I due si spalleggiano a vicenda: l'uno asseconda i voli dell'altro. Leonardo DiCaprio balla con la macchina da presa come Gene Kelly con Cyd Charisse. Tutto fila via in maniera così fluida da restituirci al nostro stupore di bambini quando, ignari dei poteri del montaggio, i film sembravano essere un unico piano sequenza. La sovrumana potenza visionaria di Scorsese risuona in ogni stacco di montaggio, in ogni movimento di macchina al punto che pare sentirlo mentre ringhia ai suoi collaboratori: «Play it fuckin' loud!», proprio come ordinò Bob Dylan a Robbie Robertson e ai suoi sodali della Band all'alba della svolta elettrica. Ed è proprio a Robertson, fedelissimo, cui si deve una selezione di brani fulminanti che vanno da classici del blues eseguiti da maestri come Elmore James, John Lee Hooker o Jimmy Castor, passando per Charles Mingus e giungendo infine ai Devo, ai Cypress Hill, ai Foo Fighters e a Plastic Bertrand (senza contare una sorpresa tutta italiana...). Con 'The Wolf of Wall Street', il regista ritrova il piacere di raccontare infrangendo ogni regola della linearità. Come un nastro di Escher impazzito, Scorsese ricorre a tutte le strategie e risorse possibili. Flashforward incastonati in flashback (e viceversa), moltiplicazione ininterrotta dei punti di vista, angolazioni sempre sorprendenti, dialoghi ultraveloci con la parola e il verbo «fuck» modificati, declinati e coniugati in ogni modo possibile. Il tempo filmico sembra argilla fra le mani di un creatore posseduto dalla pura gioia della mitopoiesi che conduce le danze con un piacere satanico per giungere all'apice della botta da Qualuude in ritardo che è già passata alla storia del cinema. 'The Wolf of Wall Street' è il cinema di Scorsese al calor bianco. Un'opera complessa e radicale che sposta in avanti quanto sappiamo oggi del cinema, rilanciando tutte le potenzialità del discorso scorsesiano rimasto per troppo tempo fermo alle convenzioni hollywoodiane. Bentornato Marty!" (Giona A. Nazzaro, 'Il Manifesto', 23 gennaio 2014)
"L''Hollywood Reporter' lo ha definito l'equivalente stilistico di un mix di cocaina e Viagra e alcuni critici hanno manifestato disagio di fronte allo sfoggio iperbolico di sesso, droga e «rock 'n roll», ma alla sua uscita, il giorno di Natale, gli americani si sono precipitati a vedere 'The Wolf of Wall Street'. (...) Ironicamente, il primo a riconoscere il potere messianico di un messaggio che promette denaro illimitato e, con esso, una lista di 'divertisssment' da far sembrare innocenti gli 'spring breakers' di Harmony Korine, è proprio Scorsese, che filma il suo protagonista - un ragazzo della Queens blue collar diventato plurimiliardario vendendo a degli sprovveduti delle azioni che non valevano nientemeno come un Machiavelli della finanza che come un predicatore religioso, il capitalismo sfrenato la mega-Chiesa più irresistibile di tutte. Se, come ha riconosciuto anche il regista, 'The Wolf of Wall Street' è l'ultimo capitolo di una trilogia «del crimine» di cui fanno parte anche 'Quei bravi ragazzi' e 'Casinò', l'altro titolo che viene in mente guardandolo è infatti il suo grandissimo film sulla seduzione della performance, 'Re per una notte'. Il teatro della storia, in realtà, non è Wall Street, bensì Long Island - lo stesso set di 'Gatsby' (un ideale doppio programma con Wolf - non solo per DiCaprio: si tratta di un'equivalente parabola «americana») e delle gesta dei piccoli truffatori di 'American Hustle'. Scritto da Terence Winter (uno degli sceneggiatori di 'The Sopranos' e 'Boardwalk Empire'), il film è adattato dall'autobiografia di Jordan Belfort. (...) Il crescendo iperbolico di 'The Wolf of Wall Street' è simile a quello di 'Quei bravi ragazzi', una discesa agli inferi progressivamente più grottesca, allucinata, ridicola. La macchina di Scorsese che quasi compete con l'energia fisica inarrestabile di Belfort/Di Caprio. Concedendosi persino una lunghissima, buffissima scena, tra Jerry Lewis e un cartoon della Warner, in cui Jordan, dopo essersi fatto troppe pillole di Quaalude, non riesce a muoversi ed è costretto a strisciare fino e dentro alla sua Lamborghini. 'Hugo', un film sulla meraviglia e sullo sguardo, ci era sembrato un film profondamente autobiografico per Scorsese. Con 'Wolf' il regista torna a delle ossessioni personali più primarie. Si sente, nel cut di tre ore che arriva in sala, l'ambizione di trascendere i limiti del lungometraggio (Winter porta al progetto un respiro «seriale»). Non è un film chiuso, risolto come 'Quei bravi ragazzi' e 'Casinò', ma è il film più fisico, sentito, creativo di Scorsese da molti anni a questa parte e, aldilà dell'adrenalina pura, esilarante, della mise en scene, ha dei momenti altissimi. Infatti non si può smettere di guardarlo. Come gli (avidi) allocchi che abboccano all'amo di «padre» Belfort, siamo (nell'ultima inquadratura) tutti assuefatti." (Giulia D'Agnolo Vallan, 'Il Manifesto', 23 gennaio 2014)
"Signori dell'Academy un ultimo sforzo! Negate l'Oscar anche stavolta a Leonardo DiCaprio e avrete conquistato la vetta. Del ridicolo. A trentanove anni l'ex romantico naufrago del Titanic regala al pubblico - che è altra cosa delle potenti tribù hollywoodiane - una performance mostruosa, una serie di esplosioni d'energia che sembrano a un certo punto dar fuoco allo schermo: invece di limitarsi a ricostruire per via mimetica o pregiudiziale il protagonista di 'The Wolf of Wall Street', infatti, fa sembrare allo spettatore che improvvisi spontaneamente sullo spartito autobiografico di Belfort, sul suo dannato e clownesco repertorio di espressioni, battute (anche voce e inflessioni nella versione originale), posture e gesti; ma, restando nel contempo più che mai fedele a se stesso, realizza il ruolo finora più virtuosisticamente tragicomico della carriera. In quanto all'opus n° 25 di Martin Scorsese, ovviamente anch'esso in corsa per la statuetta, è senza dubbio degno del maestro per l'audace chiave stilistica, la furiosa carica ritmica, la ferocia del punto di vista storico, sociale e ambientale, la colonna sonora da sballo e gli straordinari assoli attoriali - dall'adepto e complice Hill al padre pazzoide Reiner, dall'avvenente seconda moglie Robbie al primo e luciferino mentore McConaughey - che ruotano attorno al premesso show dicapriano come i pianeti attorno al Sole. Un film, dunque, memorabile che, però, rischia troppo proprio a causa dei suoi principali nutrimenti e cioè l'iperbole e la ridondanza. Non a caso le tre ore dedicate alla versione schermica delle gesta del «Lupo» Jordan Belfort, broker che tra la fine degli Ottanta e i primi Novanta giocò spericolatamente con i titoli a Wall Street illudendo e truffando per cifre da capogiro migliaia d'investitori poco accorti, s'imballano quando le situazioni si ripetono, gli estremismi si accumulano e il registro da commedia prende il sopravvento sulla compiutezza narrativa. E in questi precisi momenti che l'ammirazione si ritrova in bilico sul disorientamento e la coerenza delle intenzioni di Scorsese - all'incirca quelle di trainare le atmosfere dei suoi grandi gangster-movie sin dentro la farsa (la cui acme è la nottataccia, un po' alla 'Pulp Fiction' dei due compari intossicati) - non favorisce facili adesioni o automatici entusiasmi. Se si superano tali impedimenti, eccovi proiettati senza rete nello scatenato luna park che iniziava - è bene non fare confusione demagogica - alla fine del cosiddetto «edonismo reaganiano» e doveva poi condurre l'America e il mondo sino alla pestilenza della new economy, dei mutui subprime e dei giocolieri di Goldman Sachs e similari. (...) Prendere o lasciare, insomma, tenendo presente che un cinema monumentale azzanna buongusto, equilibrio e verosimiglianza come i lupi azzannano la carne." (Valerio Caprara, 'Il Mattino', 23 gennaio 2014)
"Piacerà agli scorsesiani di stretta osservanza, naturalmente, che impazziranno di felicità vedendo un Martin ai livelli dei suoi capolavori ('Quei bravi ragazzi', 'Casinò'). A quasi 72 anni, l'uomo pedala potente e felice, confermandosi uno degli ultimi grandi narratori filmici e il campione dell'antropologia cinematografica (lo sapevate che i «wolves» sono onanisti come adolescenti?) Ma il 'Wolf' appassionerà anche chi di alta media o bassa finanza non capisce nulla e invece alla fine, dopo esser stato tenuto per mano da Martin per quasi tre ore, avrà capito tutto (o così crederà). Merito del pregiato metodo Scorsese (che giura di esser stato ignaro di boxe quando fece 'Toro scatenato' e di aviazione prima di 'The Aviator'). Lui si introduce nell'universo di un personaggio, e prima ti fa vedere cosa mangia, cosa beve (in questo caso cosa fiuta). Poi lo pedina negli uffici della Wall, nei salotti dove non entri se non hai i milioni di dollari che ti escono dalle tasche. E gli amori sempre convulsi, sempre «svelti» quasi sempre mercenari. Miracolo di Scorsese. Esci dal cinema e il «Lupo» ti sembra familiare come un fratello. Anche se nella vita, uno così non lo vorresti mai incrociare." (Giorgio Carbone, 'Libero', 23 gennaio 2014)
"Si fa prima a dire cosa non è. Non è un racconto con morale sui danni che si combinano manovrando azioni e promuovendo investimenti truffaldini. Non è un atto d'accusa contro la finanza e la Borsa, intese come forze del male che distruggono il mondo. Non è un manifesto che gli attivisti di Occupy Wall Street possano sottoscrivere. Non è un manuale per broker senza scrupoli che vogliano arricchirsi come Jordan Belfort. Non è un risarcimento per le vittime cadute nella trappola. Non parla di redenzione o di pentimento (anche se il vero Jordan Belfort dopo averlo visto ha parlato di 'esperienza catartica', già peraltro sperimentata mentre scriveva il libro, uscito da Rizzoli con il titolo 'Il lupo di Wall Street': non è certo lui lo spettatore che Martin Scorsese aveva in mente). Son tre ore in cui Leonardo DiCaprio dà il meglio di sé, sperimentando ogni stile di recitazione. Istrionico quando arringa la sua truppa di venditori-telefonisti. Ingenuo quando per la prima volta viene invitato a pranzo in un ristorante di lusso e mentre il suo mentore Matthew McConaughey sniffa lui non ordina neanche una birra. Debosciato quando arruola prostitute di gran lusso a dozzine. Comico - anzi slapstick - nella scena in cui manda giù pastiglie di Quaalude d'annata, che fanno il loro devastante effetto con ritardo: la risalita in macchina e il ritorno a casa sono da antologia della depravazione (con un salvataggio in extremis che ricorda la puntura di adrenalina in 'Pulp Fiction' di Quentin Tarantino). (...) Leonardo DiCaprio si è divertito. Magari un po' troppo, giacché era anche produttore: sul set improvvisavano parecchio e la montatrice Thelma Schoonmaker avrebbe potuto tagliare qualcosa in più (comunque, meglio questa generosità di certe storielle stiracchiate). Si è divertito anche Martin Scorsese, dopo le fatiche fatte per portare a casa il film: l'idea risale a prima di 'Shutter Island', che era francamente poco interessante con i suoi deliri manicomiali. Meglio i vizi e gli eccessi miliardari, raccontati con tono da commedia anche quando il castigo arriva sotto forma di Fbi. Meglio il ritratto di un truffatore incallito e sempre strafatto. Dichiaratamente di parte: è lo stesso Belfort che racconta la sua storia rivolto allo spettatore, interrompendosi quando sta per scivolare su materie tecniche ('inutile spiegare, basterà sapere che non era legale'). Mossa cinematograficamente astuta, che però offre il fianco alle polemiche. Rivolte al regista, all'attore, allo sceneggiatore Terence Winter che aveva scritto 'I Soprano' (...) e 'Boardwalk Empire' (...). Non proprio due storie edificanti, ma in quel caso nessuno - a parte qualche italoamericano - ha avuto da ridire. Dev'essere Wall Street che infiamma gli animi, e che impedisce di godersi 'The Wolf of Wall Street' per quel che è: un film pieno di energia, scatenato, travolgente, adrenalinico, sopra le righe, volgarissimo e vitale, su un truffatore che alla fine risulta molto più fascinoso del Gordon Gekko di Oliver Stone." (Mariarosa Mancuso, 'Il Foglio', 23 gennaio 2014)