Sabato 13 febbraio 2016 - Ore 21:00
Domenica 14 febbraio 2016 - Ore 16:00 e 21:00
Miglior attore non protagonista a Mark Rylance
Il titolo del film, Il ponte delle spie, fa riferimento a un ponte realmente esistente a Berlino, che un tempo univa la zona est e quella ovest, oggi noto come Ponte di Glienicke. Il soprannome gli viene dal fatto di essere stato spesso teatro di scambi di prigionieri tra i servizi segreti americani e quelli della Germania Est. Il ponte delle spie racconta la storia di James Donovan (Tom Hanks), un famoso avvocato di Brooklyn che si ritrova al centro della Guerra Fredda quando la CIA lo ingaggia per un compito quasi impossibile: la negoziazione per il rilascio di un pilota statunitense, Francis Gary Powers, abbattuto nei cieli dell'Unione Sovietica mentre volava a bordo di un aereo spia U2.
Regia: Steven Spielberg
Interpreti: Tom Hanks, Mark Rylance, Alan Alda, Amy Ryan, Billy Magnussen, Eve Hewson, Domenick Lombardozzi, Dakin Matthews, Austin Stowell, Sebastian Koch, Michael Gaston, Peter McRobbie, Doris McCarthy, Jon Donahue, Stephen Kunken
Sceneggiatura: Matt Charman
Fotografia: Janusz Kaminski
Montaggio: Michael Kahn
Musiche: Tomas Newman
Durata: 2 ore e 21 minuti
Di che cosa è fatto un eroe? E per quali motivi viene definito tale? Oggi, se provate a rivolgere domande del genere a un adolescente, probabilmente vi risponderà che maschera, calzamaglia e mantello identificano a prima vista l’eroe, che è tale in virtù dei suoi superpoteri e della capacità di primeggiare in battaglia. Altrimenti, ma qui l’età si alza, c’è il tipo alla James Bond. Sexy, agile, ricco di gadget tecnologici e al di là del bene e del male.
Ma se c’è una cosa che accomuna quell’adolescente cresciuto a pane e Marvel e i suoi genitori che preferiscono storie più plausibili è l’incapacità di pensare l’eroismo nelle forme del tutto anonime di un pacioso signore dalle guance generose, la sciarpa variopinta e il cappotto blu. Un uomo di legge. Di più: uno che le battaglie non le combatte, ma le scongiura. Inoltre: uno realmente esistito.
Solo l’imperturbabile innocenza di Steven Spielberg, che più invecchia e
meno cinico diventa (grazie a Dio), poteva pescare dagli archivi della
storia il volto comune dell’eroismo, il volto di James Donovan.
Chi
era costui? L’avvocato del diavolo nell’America burrosa e paranoica da
Guerra Fredda, incaricato di difendere l’indifendibile, una spia russa
catturata sul suolo patrio, Rudolf Abel. A lui il regolare processo per
salvare le apparenze e ribadire col diritto il primato di uno Stato
democratico. Ma per Donovan quel processo deve essere anche giusto,
perché non c’è Stato democratico senza primato del diritto. A conti
fatti – e non facendo i conti di apparati, familiari e vicini – salverà
la vita di un uomo che, come lui, ha servito la complicatissima causa
dell’integrità e che a tempo debito servirà da controparte nello scambio
con il pilota dell’aereo-spia U2 Francis Gary Powers e lo studente
americano Frederic L. Pryor, caduti nelle mani del blocco comunista
(URSS e Germania Est).
Donovan si ritroverà suo malgrado in prima
linea nella complicatissima partita diplomatica che si terrà in
incognito sul campo losco di una Berlino spaccata in due dal Muro. E
avrà la meglio sbertucciando servizi segreti di entrambi i blocchi.
Sull’episodio storico vi rimandiamo alla piacevolissima visione del film, che Spielberg dirige con la solita passione e un’invidiabile leggerezza, abbinata al gradevole understatement dello script dei fratelli Coen. Ricostruzione calligrafica del periodo (fine anni ’50) ma efficace, gran duetto d’attori – con Tom Hanks sempre più credibile erede di Jack Lemmon (raffreddato e con il fazzoletto sempre pronto all’uso ricorda il C.C. Baxter de L’appartamento) e il suo sparring partner, Mark Rylance, capace di imprimere umanità e carattere a un personaggio immobile, atono e di poche pose – e attualità a go go: la Guerra Fredda non è in archivio ma di drammatica attualità, senza contare le similitudini con la Guerra al Terrore, dove questioni di natura giuridica, interessi di Stato, odio identitario e uso della tortura rimandano in fondo alla domanda delle domande che riguarda oggi tutte le democrazie minacciate dal terrorismo: è lecito difendersi con metodi che rischiano di snaturare quel che si difende?
La risposta di Spielberg è, ancora più che in Lincoln, nella
Costituzione, ovvero in quella Parola che fonda la convivenza
democratica e soprassiede alle dispute. Quella Costituzione che rende
eroi chi la difende e la incarna, siano essi capi di Stato o semplici
azzeccagarbugli. Lo stile visivo serve allora da grancassa a un concerto
di voci dissonanti, misura uno spazio (in Lincoln era soprattutto il
Congresso, qui l’aula di un tribunale, un’ambasciata, una stanza degli
interrogatori) che esiste solo in virtù della retorica che ospita.
Appalta l’immaginario al potere della parola più che alla forza delle
armi, illuminando un esercito di negoziatori, diplomatici e pontieri (azzeccatissimo
titolo Il ponte delle spie) e relegando sullo sfondo militari e 007. Una
sfida che Spielberg risolve anche sul piano iconico, ridicolizzando da
un lato l’aereo-spia con i suoi inutili congegni ultra-tecnologici e le
potentissime macchine fotografiche a scatto simultaneo, e sottolineando
dall’altro l’autentico e inoffensivo uso dell’immagine da parte di un
nemico appassionato di pittura, quel Rudolf Abel che si congederà da
Donovan regalandogli un ritratto, a memoria del reciproco riconoscimento
umano.
Di amici – e nemici – così oggi avremmo bisogno. (Gianluca
Arnone)
"'Il ponte delle spie' comincia e finisce con due momenti di suspance, racchiuso tra un frenetico inseguimento alla Hitchcock tra le strade di New York e il momento dello scambio sul ponte di Glienicke, poi ribattezzato 'il ponte delle spie', messo in scena come un vero e proprio duello western (nella neve, come il prossimo western di Tarantino). Spielberg utilizza la più classica e solida delle forme cinematografiche per tornare a riflettere sulla grande Storia, come già in 'L'impero del sole', 'Schindler's List', 'Il soldato Ryan', 'Amistad', 'Munich', 'War Horse' e 'Lincoln', ma anche 'Flags of Our Fathers', 'Lettere di Iwo Jima' e le due serie televisive sulla Seconda guerra mondiale, 'Band of Brothers' e 'The Pacificic', di cui è stato produttore. L'obiettivo del regista non è solo rievocare un difficile momento storico rendendo omaggio ai racconti di suo padre che in Russia durante la Guerra Fredda vide i resti dell'aereo di Powell esposti sulla Piazza Rossa. Il vero scopo del suo cinema negli ultimi anni è quello di aprire con il pubblico un dibattito sul presente, e questa volta sotto la lente ci sono anche gli errori della politica estera americana e di quella di Putin, i passi falsi e anticostituzionali fatti in nome della guerra al terrorismo, la cultura della paura e del sospetto. (...) Oltre ai fatti, Spielberg, che usa la pellicola per ottenere il look da film noir anni Quaranta, ricostruisce magistralmente le atmosfere di quegli anni, rende palpabile l'aria malsana che si respirava a Berlino, restituisce luci e colori, stoffe e arredi dei tristi uffici della Germania dell'Est, le sabbie mobili in cui si arenava la diplomazia, gli ingarbugliamenti della politica, i grossolani trucchi per ingannare gli avversari. E se l'attore teatrale Mark Rylance offre una straordinaria performance nei panni della spia venuta dal freddo, Tom Hanks, per la quarta volta diretto dall'amico Steven, raccoglie con il suo Donovan l'eredità dei personaggi interpretati da James Stewart e Cary Grant. Ad Hanks e Rylance, che incarnano le anime nobili di questa storia, sono affidati i dialoghi di più illuminanti del film scritto da Matt Charman con la briosa collaborazione dei fratelli Coen che hanno aggiunto una buona dose di umorismo alla storia. Ed è proprio la parola, come già in 'Lincoln', la grande protagonista di questa vicenda, perché di parole e informazioni era fatta la Guerra Fredda e perché parola fa rima con negoziazione e persuasione, nemiche di guerra e barbarie. E nel cinema di Spielberg, da guardare e da ascoltare con attenzione, la parola diventa, soprattutto negli ultimi anni, infallibile antidoto contro rumori, frastuoni, effetti speciali di tanti film che oggi ci buttano in faccia la realtà senza darci il tempo di riflettere." (Alessandra De Luca, 'Avvenire', 16 dicembre 2015)
"È un magnifico classico 'Il ponte delle spie', e pazienza se alcuni considerano riduttivo il termine, ce ne fa remo una ragione. Classico nel senso che si iscrive nel filone hollywoodiano del dramma di guerra; classico nell'impianto della storia basata su fatti veri; classico nello stile ispirato al cinema Anni 40/50: e però, lungi dall'essere di maniera, il classicismo di Steven Spielberg è sempre una magistrale forma di re-invenzione a forte impatto emotivo. (...) Pur nella differenza di epoca, 'Il ponte delle spie' riecheggia le tematiche profondamente spielberghiane di 'Lincoln': sullo sfondo un irrequieto spaccato di storia - lì la guerra civile, qui la Guerra fredda; in primo piano un individuo - da una parte il Presidente, dall'altra un Everyman - capace di battersi con pragmatico idealismo per fondanti i valori democratici. Il tutto costruito su un fluido ritmo narrativo con straordinaria sapienza visiva; e avvalendosi di due emozionanti interpreti (...)." (Alessandra Levantesi Kezich, 'La Stampa', 17 dicembre 2016)
"Sulla scia del magnifico 'Lincoln' (2012), Spielberg prosegue il suo percorso sulla 'parola' che si fa gesto, attingendo dalla Storia del suo Paese anticorpi di vitale attualità. Una pellicola di potenza straordinaria, scritta mirabilmente dai fratelli Coen e Matt Charman, che conferma l'immensità profetica di un grande cineasta in stato di grazia. Da non perdere." (Anna Maria Pasetti, 'Il Fatto Quotidiano', 17 dicembre 2015)
"Piacerà a chi pensa che negli ultimi anni Spielberg ha dato il meglio coi film storici ('Lincoln'). Brillante nelle sequenze spionistiche, «II ponte» è asciutto ed equilibrato nella rappresentazione dell'incontro-scontro tra i due mondi. Secondo Steven quello dell'ovest era nel 1962 e rimane il migliore." (Giorgio Carbone, 'Libero', 17 dicembre 2015)
"Sembra un film partorito dagli anni Cinquanta, classico nel suo stile. Eppure, indimenticabile e senza tempo, grazie a un maestro (termine abusato e impropriamente accostato a troppi autori) della regia come Steven Spielberg, al quale basta solo la scena iniziale per far capire che i fuoriclasse sono tali perché rari e geniali. (...) E' tratto da una storia vera, esaltata dai fratelli Coen che hanno imbastito una sceneggiatura, finalmente, priva di complicati meccanismi contorti, ricca di tensione, capace di «santificare» personaggi comuni, eroi e antieroi. E' un film anche politico, di grande attualità, sul valore dell'etica a tutti i costi, dei sani principi democratici che possono sbloccare situazioni apparentemente irrisolvibili. Tom Hanks incarna tutto questo con grande bravura, in una delle sue migliori interpretazioni di sempre. Quanto a Spielberg, non si può che rimanere sbalorditi e grati davanti a questa grande lezione di cinema." (Maurizio Acerbi, 'Il Giornale', 17 dicembre 2015)
"Spielberg prosegue un percorso iniziato molto tempo fa, almeno dai tempi di 'Amistad': una riflessione sui gangli vitali della democrazia americana, della quale il recente 'Lincoln' è stato forse il capitolo più 'teorico' e più consapevole. Affascinante affresco sulla Guerra Fredda, ambientato nella Berlino del Muro nascente, con un grande Tom Hanks." ('L'Unità', 17 dicembre 2105)
"Spy story, court-movie, melodramma e film d'azione sono dosati in miscela a volte prodigiosa nell'avventura logica e deterministica di un eroe calmo e trascinante, non inferiore al Navaroski di 'The Terminal' o al tenace Schindler. Cinema&vita. Dopo il quadro della nascita di una nazione, pervaso di tetra guerra e sacrificio, nel bellissimo 'Lincoln', il più virale e cinefilo degli autori americani ci porta nel congegno strategico della difesa di una nazione, che prevede prima di tutto la difesa dei diritti, della giustizia, dell'umanesimo a cui si ispira. Nel disegno implicito c'è un clamoroso richiamo alla perdita attuale di questi valori. Il rispetto reciproco tra Donovan e Abel è un monito al nostro tempo. Hanks infallibile." ('Nazione - Carlino - Giorno', 18 dicembre 2015)