Sabato 7 marzo - Ore 21:00
Domenica 8 marzo - Ore 16:00 e 21:00
Paolo, estroverso e burlone agente immobiliare, e Simona, bellissima di periferia e autrice di un best-sellers piccante, sono in attesa del loro primo figlio. La coppia ha deciso di organizzare una cena insieme a Betta, sorella di Paolo e insegnante con due bambini, al marito Sandro, raffinato scrittore e professore universitario precario, e all'amico d'infanzia Claudio, eccentrico musicista che cerca di mantenere in equilibrio gli squilibri altrui. La serata che si preannunciava come una tranquilla e allegra cena tra vecchi amici prende una piega completamente diversa a causa di una semplice domanda sul nome del figlio che Paolo e Simona stanno per avere...
Regia: Francesca Archibugi
Interpreti: Valeria Golino, Alessandro Gassman, Micaela Ramazzotti, Luigi Lo Cascio, Rocco Papaleo
Sceneggiatura: Francesca Archibugi, Francesco Piccolo
Fotografia: Fabio Cianchetti
Montaggio: Esmeralda Calabria
Durata: 1 ora e 36 minuti
Segreti e bugie tra amici: Francesca Archibugi è tornata, e annota l'Italia in punta di camera
Scritto con Francesco Piccolo e tratto dalla pièce Le prénom, che già ha ispirato il francese Cena tra amici (2012), Il nome del figlio riporta dietro la macchina da presa Francesca Archibugi, sette anni dopo Questione di cuore. Titolo che viene buono: presto archiviate le annotazioni in punta di camera su sempreverde fascismo, gentrificazione del Pigneto e tic sinistrorsi, la Archibugi va al cuore del problema, ovvero alle questioni pendenti, insabbiate, inevase tra due coppie e l’amico di sempre Claudio (Rocco Papaleo), musicista eclettico. Paolo (Alessandro Gassmann) è agente immobiliare tronfio, simpatico e “maldestro”: ha sposato Simona (Micaela Ramazzotti), borgatara semi-ripulita, autrice di bestseller gaudente e mamma prossima ventura. La sorella di Paolo è l’insegnante Betta (Valeria Golino), che vive al Pigneto con Sandro (Lo Cascio), professore universitario e twittero professionista. Glorioso passato e friabile presente: il padre onorevole e ingombrante di Paolo e Betta non li ha forse destinati al ruolo di eterni figli, con un narcisismo preterintenzionale e altri infantilismi? Attorno non va meglio, ma la Archibugi ha una buona inquadratura, se non una scena dedicata, per tutti: Italia corale e caratteri idiosincratici, che volete di più? (Federico Pontiggia)
"Inizia come pièce boulevardier di de la Patellière e Delaporte che diventa poi l'amabile 'A cena fra amici', ed ora la versione della Archibugi ('Il nome dei figlio') che, nei suoi amati interni di famiglie che si sbranano, la traduce in una commedia intelligente di antropologia culturale made in Italy. (...) il film pattina veloce tra la mini recherche di ex ragazzi e peccati veniali e mortali di oggi. (...) In libera uscita con flash back al mare, la commedia vive la natura teatrale con una macchina da presa mobile e spregiudicata nel curiosare nella psico somatologia di personaggi che conosciamo bene, nel giro dell'oca della sociologia italiana. Tutto è in mano ad attori di gran classe, che mettono il paletto sui caratteri: Gassmann jr. è cialtrone da sorpasso, Lo Cascio un bravissimo intellettuale finto umile (non andrà mai da Fazio), la Golino non sa se uscire dal silenzio o meno, Papaleo si gusta la scena madre nel senso vero del termine. Ma quella per cui tifiamo è Micaela Ramazzotti, finta scrittrice, bravissima e straricca di sfumature. L'unica che vorremmo davvero avere a cena." (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 22 gennaio 2015)
"Dai Parioli al Pigneto. Da 'La Terrazza' a 'Il nome del figlio'. Dagli anni 70 di Scola agli anni 10 della Archibugi. Lo schema è analogo: feroce resa dei conti in famiglia, la grande famiglia della Sinistra, durante una cena in terrazza . Per il resto cambia tutto: sentimenti, sfondo storico, retroterra morale. Là i protagonisti non avevano padri, questi invece sono aggrappati al passato. Nel film di Scola il passato non c'era, la terrazza era solo il contenitore da cui si dipartivano le storie venate di viltà o meschinità dei personaggi. Qui invece tutto avviene in tempo reale, le tensioni latenti, i nodi sepolti, gli scheletri negli armadi, emergono durante la cena. Ma i protagonisti sembrano condannati a essere in eterno 'figli di' e anche il film torna ossessivamente a un passato che non diventa mai mitico come dovrebbe e finisce per appesantire il racconto anziché arricchirlo. Nel 'Nome del figlio' questo passato si chiama Pontecorvo (niente a che vedere con Gillo e Bruno Pontecorvo ovviamente), la famiglia ebraica, altoborghese e di sinistra a cui appartengono o sono affiliati i cinque protagonisti, culla di grandezze, vere o presunte, e di sicure nevrosi. (...) Il resto è un gioco molto brillante di rinfacci reciproci in cui la scelta di un nome atipico per il figlio in arrivo di Gassman e Ramazzotti scatena un autentico putiferio e porta a galla tutti i tic e i tabù della sinistra chic. (...) In un rimbalzare di accuse e provocazioni reciproche che il cast, strepitoso, porta al punto di incandescenza. Con momenti anche memorabili che però non fugano mai del tutto il vago sentore di maniera che aleggia su questo piccolo mondo antico. C'è un paese nuovo, là fuori, da raccontare. I personaggi non se ne accorgono. Ma anche il film, malgrado il ruolo senza ombre accordato al personaggio della Ramazzotti, l'unica dotata di radici e senso della realtà, si limita ad accennarlo." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 22 gennaio 2015)
"Piacevole, intelligente, recitato con classe: «Il nome del figlio» non è un capolavoro però... avercene di film simili in Italia. (...) un gioco antropologico di spiccato impianto teatrale, benché sin troppo elettrizzato da frequenti volteggi della macchina da presa. Si tratta di una variante aggiornata ai giorni d'oggi del modulo «Metti una sera a cena», che vede radunarsi in un appartamento romano arredato con eleganza finto casual e very radical chic quattro familiari e un amico di vecchia data pronti a dare vita a un balletto di provocazioni, recriminazioni, aggressioni, confessioni culminante in irrefrenabili spasimi nostalgici. Il piacere dello spettatore sta tutto nei caratteri, la cui madornale tipicità- in seguito alla più banale delle discussioni (...) non può che sfociare nel conflitto politico e umorale italiano per eccellenza: destra cafona, ignorante e consumista contro (soprattutto in apparenza) sinistra spocchiosa, intellettualistica, algida e sprezzante del «gusto degli altri» oltre ogni decenza. Conferito il ritmo giusto ai dialoghi, goduto con indulgenza il trenino sulle note di Dalla e arginata la non felice tendenza ai flashback rievocanti adolescenze non ancora tanto frastornate, «Il nome del figlio» s'impenna notevolmente grazie alla scelta e alla resa degli attori (...). Il paragone più giusto e favorevole sarebbe da istituire con «La terrazza» e «La cena» di Scola (non a caso uno dei maestri della regista), ma è fatale che all'uscita dalla sala riaffiori nella memoria di molti spettatori quello con il più recente «Carnage». E se dal punto di vista dell'asciuttezza drammaturgica e soprattutto della spietata obiettività dello sguardo socio-psicologico a taglio universale un maestro come Polanski non può che primeggiare nettamente, proprio lo show recitativo (Gassmann e Ramazzotti in excelsis) fa sì che il combattivo contendente di produzione tricolore possa battersi alla pari." (Valerio Caprara, 'Il Mattino', 22 gennaio 2015)
"Questa oliata formula da teatro boulevardier ha imbrigliato l'Archibugi quel giusto, senza impedirle di far suoi i personaggi: affidandoti a un gruppo di attori ottimi e benissimo assortiti; e conferendo loro, in un calibrato gioco di flashback, uno spessore e un'affettività felicemente sottolineati dalla morbida fotografia di Fabio Cianchetti." (Alessandra Levantesi Kezich, 'La Stampa', 22 gennaio 2015)
"Francesca Archibugi (...) realizza un «remake» che in realtà non è tale pure se conserva la situazione originaria (...). La regista insieme a Francesco Piccolo con cui ha scritto la sceneggiatura «traduce» infatti letteralmente il testo francese nel cortile di casa (nostra) a cui adatta personaggi, situazioni e battute a cominciare dal nome in questione (...). Più che il film francese il primo riferimento che viene in mente è il vecchio 'Ferie d'agosto' di Paolo Virzi (qui produttore) dove si scontravano la famiglia di destra e quella di sinistra, la prima cafona e chiassosa, che aveva letto solo «le istruzioni del cellulare» - battuta che fece epoca- la seconda colta e molto alternativa. Solo che per rimanere nel cortile di cui sopra da allora sono passati vent'anni (era il 1995), e viene da chiedersi se nell'Italia post-berlusconiana e renziana questo gioco abbia un senso (...). Lasciamo da parte l'aspetto visivo - che pure sarebbe importante, la commedia «da camera» è difficilissima e in questa tavola la macchina da presa non ha mai la fluidità della conversazione - va detto però che gli attori sconfiggono con bravura gli interni nello stile fiction italiana di prima serata che ormai funesta il nostro cinema. Ma chi è che critica questo film, che cosa mette alla berlina? L'impressione è che i tanti luoghi comuni, così rassicuranti, compresa l'ossessione virziana dei borgatari che sono più «sinceri» dell'intellettuale, alla fine diventi una specie di (forse persino involontaria) presa in giro di se stessi. Di certo non è l'Italia di oggi assai più vischiosa e omogenea che si colpisce, anzi se ne assecondano le abitudini senza mettere in crisi nulla e nessuno. La commedia però, anche quella italiana, è altra cosa." (Cristina Piccino, 'Il Manifesto', 22 gennaio 2015)
"Non è un mero calco, però, non è la solita commedia scopiazzata, e male, dai cugini francesi. In scrittura Archibugi e Francesco Piccolo hanno lavorato per adattare, ridefinire, ricalibrare il copione gallico alle nostre latitudini, in primis quelle capitoline: Parioli, Pigneto, Casal Palocco, dimmi dove abiti e ti dirò chi sei. A Roma come mai altrove. Non solo, lo slittamento principale dall'originale sta nella de-ideologizzazione destra-sinistra dell'intreccio in favore del primato del GPS, sia abitativo che genealogico: 'Il nome del figlio' celebra le larghe intese, romanissima prerogativa secoli prima del Patto del Nazareno, ovvero esalta il generone 2.0 in cui cachemirini infeltriti e suv parcheggiati al posto dei disabili, potage e jeroboam, radicalscicchismi e cafonerie possono coesistere, anzi, prosperare. Non che i rigurgiti fascisti - il nome del pargolo d'Oltralpe era Adolphe, qui indovinate un po' - e i tic de sinistra accademica siano questi sconosciuti, ma non sono il focus poetico del film, che tra furbetti di Roma nord, Pigneto gentrificato, belle ripulite di Palocco riesce a darci una chiave d'accesso antropologica per immedesimarci, o anche solo ridere, nel quintetto protagonista. Ridere, sorridere, ma con una sottile amarezza che non se ne va: la razza padrona spadroneggia, pur relegata nell'ultima, attuale generazione al ruolo di figli mai cresciuti, storpiati da un passato troppo glorioso da sopportare. (...) meglio che il nome del padre, questo film è 'Il cognome del padre': perché, Archibugi e Piccolo, non c'avete pensato? Metteteci pure una madre, quella di Paolo e Betta, che ha voce in capitolo, ed ecco che questi 40enni si ritrovano uniformemente sdraiati alla Serra da una grandeur - sì, usiamo proprio il francese originale - che non è più ma li ha ancora sotto scacco: destri e sinistri, pariolini o alternativi, sono tutti relitti, e il nome papabile per il nascituro è sintomo scoperto del loro non essere presenti a se stessi, del loro non appartenersi. Solo uno scherzo? Mica troppo. E, ironicamente ma non troppo, Archibugi evoca i Pontecorvo e i Bernardo (Bertolucci), un altro padre del cinema italiano tutto. Davanti alla macchina da presa ci sono, tutti bravi ma in ruoli prevedibili, i meglio attori su piazza, e la regia empatica, viva (peccato il drone) si fa sentire. Da vedere, e conservare: ovvio, nell'album di famiglia..." (Federico Pontiggia, 'Il Fatto Quotidiano', 22 gennaio 2015)
"Piacerà a chi, nelle ultime stagioni, ha scelto come consumo cinematografico frequente e abituale le commediole minimaliste italiane, discretamente scritte, dirette, recitate. E ha smesso di rimpiangere l'età d'oro di Risi, e Monicelli, Gassman e Manfredi, Sordi e Tognazzi. Perché tanto quella non torna più." (Giorgio Carbone, 'Libero', 22 gennaio 2015)
"Remake del francese 'Cena tra amici', il che toglie gusto ai vari colpi di scena. Pur con qualche difetto, però, l'Archibugi sa trasformarlo in un film godibile e ben adattato al clima sociale italiano." (Maurizio Acerbi, 'Il Giornale', 22 gennaio 2015)