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L'intrepido

L'intrepido

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Immaginiamo che esista un nuovo mestiere e che si chiami "rimpiazzo". Immaginiamo che un uomo senza lavoro lo pratichi ogni giorno, questo mestiere. E dunque che lavori davvero oltre misura e che sia un uomo a suo modo felice. Lui non fa altro che prendere, anche solo per qualche ora, il posto di chi si assenta, per ragioni più o meno serie, dalla propria occupazione ufficiale. Si accontenta di poco, il nostro eroe, ma i soldi non sono tutto nella vita: c’è il bisogno di tenersi in forma, di non lasciarsi andare in un momento, come si dice, di crisi buia. Immaginiamo poi che esista un ragazzo di vent’anni, suo figlio, che suona il sax come un dio e dunque è fortunato perché fa l’artista. E immaginiamo Lucia, inquieta e guardinga, che nasconde un segreto dietro la sua voglia di farsi avanti nella vita. Ce la faranno ad arrivare sani e salvi alla prossima puntata?

In concorso al Festival di Venezia 2013

Regia: Gianni Amelio

Interpreti: Antonio Albanese, Sandra Ceccarelli, Alfonso Santagata, Livia Rossi, Gabriele Rendina

Sceneggiatura: Gianni Amelio, Davide Lantieri

Fotografia: Luca Bigazzi

Montaggio: Simona Paggi

Musiche: Franco Piersanti

Durata: 1 ora e 44 minuti

 Biglietti esselunga Vieni al cinema alla domenica sera - a Casatenovo costa meno Prendi sei e paghi cinque - Tessere a scalare

Valutazione Pastorale (dal sito della CNVF della Conferenza Episcopale Italiana)

Giudizio: Consigliabile, problematico, dibattiti

Tematiche: Famiglia - genitori figli; Giovani; Lavoro; Libertà

Gianni Amelio ha diretto nel 1998 "Così ridevano", ultimo Leone d'oro veneziano targato Italia. Anche con questo nuovo titolo è in gara al Lido. Nuova edizione, nuovi rischi. Se coltivare speranze di vittoria è lecito, un atteggiamento più freddo riduce di molto i margini di tagliare ancora il traguardo. Il fato è che il cinema di Gianni Amelio ha raggiunto una capacità di resa espressiva medio alta bella e coerente, in grado di far coincidere lo sguardo con la 'cosa' narrata, di essere cronaca viva e lettura della cronaca stessa. Tanto più dunque lascia perplessi l'esito complessivo di questa nuova prova. Il personaggio 'Antonio' si costruisce e ci appare come uno dei 'poveracci' di "Miracolo a Milano", emarginati ma sempre positivi, destinati a salire sulla scopa e a volare "verso un paese dove buon giorno vuole dire veramente buon giorno". Ma i sapori zavattiniani diluiscono in una inopportuna ripetizione e nella eccessivamente didascalica sottolineatura della ingenuità/disponibilità di Pane, destinato ad agire per diventare un angelo di seconda categoria. Va evidenziata la complessiva bontà del protagonista, che tuttavia si muove in una sequenza di risvolti negativi, sempre destinati a restare frammentari e senza soluzione. Quando nel finale il padre si sostituisce idealmente al figlio per tenere viva la forza della musica, qualcosa sembra non tornare. E ancora meno azzeccato appare lo sguardo conclusivo in macchina che Pane rivolge allo spettatore, alla ricerca di complicità. Insomma tante premesse giuste e doverose rivolte sulla metropoli milanese come scena della dissoluzione contemporanea restano inespresse e irrisolte. Ma ci sono, sono evidenti, richiedono comunque attenzione e rispetto, interrogano ciascuno di noi. Per questo il film, certo non risolto e inferiore rispetto ai precedenti di Amelio, è da valutare, dal punto di vista pastorale, come consigliabile, problematico e adatto per dibattiti.

Utilizzazione: il film è da utilizzare in programmazione ordinaria e in seguito come avvio alla riflessione su temi attuali e incalzanti: lavoro, rapporto padre/figlio, famiglia, solidarietà.

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Un magazzino pieno di scatole di scarpe. Vuote. Antonio Pane fugge via, lontano da quel lavoro sicuro ma effimero. Una "copertura". No, Antonio Pane preferisce un altro mestiere, quello del "rimpiazzo": un giorno operaio, per qualche ora pupazzo vivente in un centro commerciale, tranviere per una corsa, sguattero in un ristorante, pizza runner e via dicendo. E' senza lavoro Antonio Pane, ma lavora ogni giorno, per rimpiazzare appunto chiunque è costretto ad assentarsi, per un motivo o per l'altro, dalla propria occupazione. Ed è tutto sommato felice, Antonio Pane. Perché si accontenta di poco, perché prima che ai soldi pensa a tenersi "vivo", a non lasciarsi sopraffare da un periodo buio come quello che stiamo vivendo. Un periodo che sta mettendo a dura prova le nuove generazioni, che spaventa anche chi possiede un enorme talento (come Ivo, il figlio ventenne di Antonio, bravo sassofonista) o, più semplicemente, chi tenta ancora di farsi strada nella vita, come Lucia, ragazza che Antonio incontrerà ad un concorso pubblico.

Non è un mistero, non lo è mai stato: Gianni Amelio ha pensato e scritto il suo nuovo film, L'intrepido (oggi in Concorso a Venezia), allo stesso modo in cui un sarto cuce e modella un abito su misura: il "vestito" è stato confezionato per Antonio Albanese, attore con cui il regista di Colpire al cuore e Così ridevano desiderava lavorare da moltissimo tempo. E L'intrepido - titolo che non a caso rimanda al celebre settimanale per ragazzi - non molla mai il suo "eroe", presente in ogni singola scena del film: volutamente surreale e quasi sempre sussurrato, il lavoro di Amelio segue le gesta di un uomo qualunque che, proprio come in un fumetto, è in grado di compiere qualsiasi mestiere, ad affrontare le avversità senza lasciarsi schiacciare.

E' a suo modo una fiaba, L'intrepido, che guarda al Chaplin di Tempi moderni (si pensi alla scena della lavanderia) provando a mescolare commedia, dramma e poesia ma che rimane sospesa - e imbrigliata - proprio nel momento in cui sceglie di mirare al pathos, affidandosi a caratterizzazioni poco riuscite (da rivedere i due esordienti Livia Rossi e Gabriele Rendina) ed esponendo il fianco con dialoghi, spiace dirlo, che rasentano il ridicolo: due su tutti, "Tifo per i tifosi, perché danno un senso alla propria giornata" o "Il tè si beve amaro". D'accordo, il personaggio di Lucia vuole rappresentare la debolezza e al tempo stesso la mera sfacciataggine di una generazione che affida a frasi/slogan le proprie certezze, ma da quel momento la drammaturgia muore. E poco a poco anche il film, inevitabilmente schiavo del suo stesso "eroe". Come ci ricorda quel fermo immagine nel finale. (Valerio Sammarco)

Tutto Antonio Albanese

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