Questo evento non è attualmente presente nella programmazione dell'auditorium
Per conoscere la nostra programmazione vai alla home page del sito con oppure utilizza uno dei nostri canali informativi: newsletter
Sua moglie è bruciata in un terribile incidente d'auto e lui, Robert Ledgard, famoso chirurgo plastico, non è riuscito a salvarla. Qualche tempo dopo anche sua figlia è morta, in seguito alla violenza sessuale subita da parte di un coetaneo ad una festa. Da quel momento Robert mette in atto un piano terribile e ossessivo: sequestra il giovane e lo costringe con successive operazioni a cambiare pelle fino a diventare una donna...
Liberamente tratto dal romanzo francese "Mygale", di Thierry Jonquet. In concorso al Festival di Cannes 2011
Regia: Pedro Almodovar
Interpreti: Antonio Banderas, Elena Anaya, Marisa Paredes, Eduard Fernández, Fernando Cayo, Bárbara Lennie, Blanca Suárez
Sceneggiatura: Pedro Almodovar
Fotografia: José Luis Alcaine
Montaggio: José Salcedo
Musiche: Alberto Iglesias
Durata: due ore
Valutazione Pastorale (dal sito della CNVF della Conferenza Episcopale Italiana)
Giudizio: Complesso, scabrosità
Tematiche: Biogenetica, Famiglia, Male, Sessualità
Fin dal raccontarla, la storia ha qualcosa di improbabile e grottesco, che poteva essere l'inizio di uno sfrenato girotondo tra passioni imprevedibili. Il fatto é che da questa cornice, quasi sempre centrale nel suo cinema e risolta talvolta con misura talaltra in preda agli eccessi (vedi i titoli precedenti), il regista sottrae qualunque elemento di ironia, elimina gli slanci degli affetti, cancella il vento di quei sentimenti che gli avevano permesso di toccare in passato il tono del forte melodramma. Spiega che "la narrazione doveva essere austera, priva di retorica e niente affatto splatter". Se le intenzioni erano queste, si potrebbe dire che sono raggiunte ma sull'assenza di fremiti cala il gelo di un racconto freddo, neutro, estraneo a qualunque emozione. Ogni svolta narrativa si ferma di fronte alla mancanza di coinvolgimento, e Almodovar dirige come un freddo ragioniere che fa il calcolo delle vendette, delle violenze, dei rapporti sessuali inutili. Nessuno dei personaggi ha il tempo di costruirsi una psicologia, tutti vagano come pedine nel vuoto pneumatico del copione. Autoreferenziale fino al didascalismo, Almodovar si muove sulla fragile linea che separa etica e cinismo, forse ignaro di quale possa essere il proprio futuro di cineasta. Per questi motivi il film, dal punto di vista pastorale, è da valutare come complesso e segnato da scabrosità.
Utilizzazione: costruito a flashback, poco lineare e ostico, il film può essere utilizzato in programmazione ordinaria con adeguata attenzione, soprattutto nei riguardi di un pubblico di minori e ragazzi. Stessa cura, anche pensando ai piccoli, è da tenere in vista di passaggi televisivi o di uso di dvd e di altri supporti tecnici.
La chirurgia estetizzante di Almodovar: il film è uno shar pei, Pedro un postmoderno superficiale ma massimalista
Una moglie morta bruciata in un incidente stradale, e per il chirurgo plastico Robert Ledgard (Antonio Banderas) una missione: creare una pelle artificiale, quella che avrebbe potuto salvarla. Ci riuscirà 12 anni dopo: un tessuto epidermico resistente a tutto, quasi ignifugo e repellente per gli insetti. Problema, come testarlo? Gli serve una cavia umana, e la troverà nel ragazzo che ha abusato di sua figlia: Vicente (Jan Cornet) , ma per lui è in arrivo una nuova, Vera identità.
Nel cast anche Elena Anaya, Marisa Paredes e Roberto Alamo, è La pelle che abito (La piel que habito) di Pedro Almodovar. Esplicitamente (post)postmoderno, pure troppo, il film è all’apparenza un thriller fanta-sociale, ma tratta tutto e tutti con estrema superficialità: la macchina da presa di Almodovar è il bisturi di una chirurgia estetizzante, non estetica. E in questo, il titolo fa fede: la pelle, non il corpo. E tanta noia: non mancano battute che potrebbero far ridere - “Mi chiamo Vera, Vera Cruz”: fa ridere? -, ma disseminate in una narrazione che non si prende mai sul serio, come (post)postmoderno vuole, e pure rischia di sfiancare lo spettatore.
Se puntualmente ritornano tutti i topoi del cinema di Almodovar – dal feticismo alla tavolozza satura, dal rapporto madre-figlio all’ironia sul sesso, e chi più ne sa più ne metta – se ne fa cattivo uso: un’invasione, un affastellamento che toglie respiro alla drammaturgia (e allo spettatore) e offre residenza alla summa, ma la più massimalista, non la più lucida.
Insomma, nonostante il ventilato slittamento poetico (a partire dal genere di riferimento) è un Almodovar al 100%, che più Pedro non si può. Anzi, Almodovar che fa Almodovar: senza preoccuparsi di altro, nemmeno de La piel que habito. Così il film è uno shar pei, Pedro tutto panza e niente sostanza. (Federico Pontiggia)