Sabato 18 settembre - Ore 21:00
Domenica 19 settembre - Ore 16:00 e 21:00
Leone d'Oro della 67a Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia
Johnny vive a Hollywood nel leggendario hotel Chateau Marmont. Se ne va in giro sulla sua Ferrari e casa sua è un flusso continuo di ragazze e pasticche. Totalmente a proprio agio in questa situazione di torpore, Johnny vive senza preoccupazioni. Fino a quando giunge inaspettatamente allo Chateau la figlia undicenne, Cleo, nata dal suo matrimonio fallito. Il loro incontro spinge Johnny a riflessioni esistenziali, sulla sua posizione nel mondo e ad affrontare la questione che tutti dobbiamo affrontare: quale percorso scegliere nella nostra vita?
Regia: Sofia Coppola
Sceneggiatura: Sofia Coppola
Fotografia: Harris Savides
Montaggio: Sarah Flack
Musiche: Phoenix
Stephen Dorff, Elle Fanning, Chris Pontius, Michelle Monaghan, Laura Ramsey, Robert Schwartzman, Caitlin Keats, Jo Champa, Laura Chiatti, Simona Ventura, Lala Sloatman, Amanda Anka, Erin Wasson, Alexandra Williams, Nathalie Fay, Kristina Shannon, Karissa Shannon, Silvia Bizio, Damian Delgado, Giorgia Surina
Valutazione Pastorale (dal sito dell'Associazione Cattolica Esercenti Cinema - ACEC)
Giudizio: consigliabile, problematico.
Verdetto giusto e coraggioso quello che a portato ad assegnare a questo film il Leone d'oro alla scorsa edizione della Mostra di Venezia. Premia un'opera incisiva e spiazzante, ulteriore tappa del percorso di una regista ormai matura nella direzione di un cinema che non si rassegna a guardare la realtà ma vi scava dentro con lucida intenzione, scarnifica il dato quotidiano e lo porta a diventare tramite per una riflessione sulle ombre del presente.Il racconto é insieme cronaca e metafora, unite lungo quella linea narrativa che non schiaccia le esigenze del vero ma le conduce ad integrarsi alla perfezione con quelle della ribellione e della sfida. Confermando di sapersi muovere con struggente naturalezza in quegli spazi invisibili dove si perde il corpo e arranca l'anima, la Coppola disegna un nuovo straniamento della coscienza, un diagramma di quel rapporto individuo/società, nel quale spesso è la seconda ad avere la meglio. Dal punto di vista pastorale, il film é da valutare come consigliabile, e certamente problematico.
Utilizzazione: il film é da utilizzare in programmazione ordinaria e in successive occasioni come proposta dai contenuti coinvolgenti. Attenzione é da tenere per minori e piccoli in vista di passaggi televisivi o di uso di DVD e altri supporti.
In Concorso una personalissima Sofia Coppola, che chiude i conti col padre rilanciando il suo cinema dell'inautenticità. Ripetendosi, ma con rigore
La vita di Johnny Marco (Stephen Dorff) gira a vuoto come la sua Ferrari, nell'incipit. Un divo del cinema hollywoodiano, abbonato ai suoi agi e alle sue miserie. Un feticcio del grande schermo, una "nullità" (Ipse dixit) nel quotidiano. Che Johnny del resto vive nella finzione: il suo nido è una suite del Chateau Marmont, santuario dello showbiz californiano, dimora a cinque stelle e non-luogo; le sue giornate trascorrono non identiche ma uguali: conferenza stampa, photo-call, make-up, gente che va e gente che viene, avventure occasionali. E lui che difficilmente le porta a termine. Destinato a non toccare mai la sostanza delle cose, manca quasi sempre il gesto: con due procaci ragazze si limita a consumare uno spettacolino di lap-dance in camera, con un'altra si addormenta nell'atto, e persino quando gli danno la parola nella grottesca sequenza italiana dei Telegatti viene interrotto da un improbabile balletto (con Valeria Marini).
Impotenza, ecco un modo di inquadrare la sua esistenza. La Coppola - che porta in gara al Lido Somewhere, chiudendo forse i conti con il proprio passato, e i sospesi con l'ingombrante padre (Francis Ford) - gira un film che è il correlato emotivo dell'attitudine del suo protagonista: apatico. Sarcasticamente crudele nell'iterare gesti e parole fasulle, monotono perché rituale, algido perché resta incollato al mondo esteriore e al suo copione, del film come della vita di Johnny. Proprio la sovrapposizione tra il diegetico e il discorsivo è il punto di forza della pellicola. Che sembra volere assimilare la lezione di Schrader sul trascendentale (filmico) - ricordate? Il trascendentale è il frutto di tre momenti distinti: il quotidiano, la crisi, la stasi - adeguandone lo schema al prosaico universo dello star system. Così, alla descrizione dell'impasse segue il momento di frattura, ovvero l'incontro con la figlia undicenne Cleo (Elle Fanning). Esso aprirà una crepa nel mondo-acquario di Johnny. Un'esperienza di autenticità che è preludio a un cambiamento esistenziale. La stasi di Johnny non coincide tout court con un ritorno al quotidiano illuminato dal "trascendente", ma con un vero e proprio risveglio alla vita.
La Coppola ha il merito di non pigiare sul pedale sentimentale, lasciando che l'evoluzione della storia avvenga senza sussurri e grida, quasi per caso. Una scelta che potrebbe lasciare lo spettatore - posto di fronte a una trasformazione priva della tradizionale enfasi narrativa - perplesso, se non addirittura freddo. Ma che è formalmente coerente con l'assunto. D'altra parte cosa c'è di più inesprimibile, immediato e naturale della meccanica degli affetti? In quale altro modo "enunciare" i salti del cuore? Nel finale il protagonista si rimette in macchina, come all'inizio del film. Non sappiamo dove andrà, ma sappiamo che stavolta andrà avanti. L'augurio è che lo possa fare anche la Coppola. Somewhere chiude definitivamente la prima stagione del suo cinema. Un'altra puntata ancora sarebbe di troppo. (Gianluca Arnone)
"L'abissale senso di vuoto che si avverte fin dalla prima sequenza, fissato nel ripetitivo rombare di una costosa Ferrari che gira solitaria su un improbabile circuito, è l'indizio inequivocabile dell'esistenza dissoluta e priva di significato di Johnny Marco, attore sulla cresta dell'onda travolto da un successo che non riesce a gestire emotivamente. È lui il protagonista del film 'Somewhere' di Sofia Coppola, presentato (...) in concorso alla Mostra del cinema di Venezia e uscito in contemporanea nelle sale italiane. Una pellicola imperfetta, ma che conferma la propensione della trentanovenne regista, figlia d'arte, a leggere e rappresentare drammi e miserie umane. Situazioni di disagio emotivo che reclamano una possibilità di riscatto, se non anche di redenzione, come avviene per Johnny Marco. Le giornate del divo hollywoodiano, interpretato da Stephen Dorff, si trascinano nelle nebbie dell'alcol e delle droghe, tra auto fuoriserie, ragazze fin troppo facili e adoranti fans. Il tutto nella cornice del mitico Château Marmont di Los Angeles, l'hotel delle star che ha perso molto del suo antico charme. Una prigione dorata, luogo perfetto di quel nulla nel quale Johnny, tra interviste surreali e rapporti interpersonali superficiali, perde ogni contatto non solo con la realtà, ma con il proprio essere, riducendo la sua vita a una banale ritualità che, nonostante le apparenze, non lo appaga. Sempre più solo, il protagonista è in parte consapevole di ciò ma incapace di trovare quel qualcosa in grado di aprirgli gli occhi e ridare un senso alla sua esistenza. Fino a quando la figlia affidata alla madre separata, l'undicenne Cleo - una brava Elle Fanning, sorella minore di Dakota - irrompe nella sua vita strappandolo al torpore e costringendolo, grazie a una sia pur breve convivenza forzata, a rimettere i piedi per terra e a ritrovare un contatto con la vita reale.
Ed è da qui che prende il via il cammino di rinascita di quest'uomo, guidato per mano dalla forza degli affetti. Una forza tanto ingenua, perché affidata all'amore filiale di una bambina, quanto potente, che Sofia Coppola non teme di utilizzare per un finale non scontato. Hollywood, parlando delle sue stelle, ha spesso scelto di raccontare storie che viravano verso conclusioni drammatiche se non addirittura tragiche; divi ai quali, stritolati dallo star system, non è stata concessa un'altra possibilità. Una possibilità che per Johnny giunge dalla famiglia. Una famiglia problematica, ma pur sempre capace di quel di più di amore vero, non virtuale o illusorio, che può restituire senso alla vita. Significativa, e non poco pungente, è la presa in giro della tv spazzatura, con l'inserimento di una scena in cui il protagonista è a Milano per ricevere un noto premio televisivo italiano, tra ballerine seminude, conduttori sciocchi e dichiarazioni di un'inconsistenza devastante. Ma per bilanciare non manca un richiamo al cinema d'autore italiano, da Michelangelo Antonioni, nella sequenza iniziale e in alcune atmosfere rarefatte, a Federico Fellini e al suo Toby Dammit, terzo episodio di 'Tre passi nel delirio', che racconta con toni surreali la storia di un attore sul viale del tramonto. Anche se la linea narrativa è simile nella costruzione, con 'Somewhere' non siamo ai livelli di 'Lost In Traslation', film che valse a Coppola un Oscar per la migliore sceneggiatura, sia perché la storia non riesce ad avere la stessa originalità e profondità, sia perché Stephen Dorff non ha la forza espressiva di Bill Murray. Molto spazio viene, infatti, riservato alla descrizione, certo non nuova, della vita dell'attore hollywoodiano, con sottolineature a volte eccessive e momenti di stanca. Mentre la riscoperta della genitorialità, raccontata nel recupero del rapporto di un padre con la figlia, che dovrebbe essere il fulcro del film, viene trattata con troppa superficialità. Forse la regista voleva evitare di cadere in uno scontato sentimentalismo, e perciò si accontenta solo di accennare a questo legame che comincia a costruirsi, ma lo ascia troppo sospeso. Un peccato, perché il messaggio è interessante: somewhere, da qualche parte ci si può perdere; ma da qualche parte c'è qualcosa o, meglio, qualcuno, che può salvarci. E quel qualcuno può essere più vicino di quanto non sembri." (Gaetano Vallini, 'L'Osservatore Romano', 5 settembre 2010)
"Piacerà a chi è rimasto deluso da 'Marie Antoinette' e cerca (forse trova) una Sofia Coppola tornata ai temi (sempre il complesso edipico) e alle finezze di 'Lost in translation'." (Giorgio Carbone, 'Libero', 3 settembre 2010)