a cura di Federico Pontiggia
Perché solo considerando La Passione di Cristo di Mel Gibson nel suo corpus è possibile evitare le polemiche che ne hanno abbondantemente e furbescamente accompagnato l'uscita. Solo considerandolo come l'ultimo capitolo di una lunga tradizione lo si può legittimamente giudicare sul suo terreno d'appartenenza, quello cinematografico. Il film di Gibson - è tautologico, ma occorre ricordarlo - è solo un film: le sue pretese di fedeltà storica vanno considerate unicamente su questo piano, ammesso che questo eventuale attaccamento alla lettera dei vangeli possa essere un merito (proprio la storia del cinema sembrerebbe indicare il contrario). Solamente dopo questa ineludibile premessa si può sgombrare il campo da pretestuosi equivoci, solo considerando questo film quale primus (nel senso della sua attualità per noi spettatori) inter pares si può iniziare a ragionarvi sopra in modo meditato, lontano dagli sdegnati rifiuti o dalle entusiastiche accoglienze dell'ora zero (ovvero, in molti casi, senza aver visto il film). Non solo, reinserire il film di Gibson in questa tradizione cinematografica si rivela di estrema utilità in merito al giudizio sul valore dell'opera: attraverso la realizzazione di confronti tra le opere, lo studio delle ricorrenze poetico-stilistiche è indubbiamente più agevole farsi un'idea consapevole e calibrata, "a freddo" come si suol dire di un film già divenuto a tutti gli effetti un case-history. Inoltre, le accuse piovute da più parti in riferimento al possibile antisemitismo del film o all'uso spregiudicato della violenza (quale: la violenza della rappresentazione, la rappresentazione della violenza o entrambe?) concluse in questo corpus ritrovano il terreno preposto a un'analisi serena ed obbiettiva, senza la nefasta possibilità di debordare nel sordo clamore mediatico.
In occasione dell'imminente uscita (mercoledì 7 aprile) sugli schermi italiani del controverso La Passione di Cristo di Mel Gibson, pare opportuno soffermarci brevemente sulle modalità di trasposizione cinematografica della figura di Gesù. Il film di Gibson, infatti, è l'ultimo capitolo di una lunga tradizione che affonda le proprie origini nei primordi della settima arte: già nel 1897 i primi film sulla vita di Cristo iniziano a essere proiettati nelle chiese di Francia e Stati Uniti. L'argomento evangelico fa subito presa: basti pensare al Cristo che cammina sulle acque di George Méliès (1899), in cui per "permettere il miracolo" si faceva abbondante uso di primitivi trucchi cinematografici, o al primo film italiano su Gesù, Passione (1900), in cui il regista Topi fece interpretare il Cristo da Fromio, un famoso trasformista. Risale, invece, al 1902-1907 il primo lungometraggio sul tema, ovvero La vita e la Passione di Gesù Cristo di Ferdinand Zecca, antesignano dei successivi kolossal hollywoodiani.
Fu proprio Hollywood, infatti, ad "appropriarsi"
continuativamente della figura di Cristo in chiave spettacolare, contando sul
prevedibile successo al box office di questi biopic: il gigantismo e il potente
dispiego di mezzi tecnici si fa strada in opere quali l'agiografica e violenta
Il Re dei Re di Cecil B. De Mille (1927), la magniloquente La tunica di H.
Koster (1953), che segna il debutto del formato cinemascope, o l'inguardabile La
più grande storia mai raccontata di George Stevens (1965) accartocciata in una
bolsa iconografia da santino. Il Leitmotiv di questa produzione hollywoodiana
risiede nella sterilizzazione della figura di Gesù, privata dei suoi aspetti più
disturbanti e scomodi e relegata negli angusti recinti di una morale asettica.
Sempre da Hollywood, però, arrivano alcuni antidoti a questa produzione innocua
ed accomodante: pensiamo a Il re dei re (1961) di Nicholas Ray, una irrisolta
lettura in chiave politica della vita del Cristo, o alla trasposizione
cinematografica del celebre musical di Andrew Lloyd Webber e Tim Rice, Jesus
Christ Superstar (1973) di Norman Jewison, che accoglie i fermenti
anticonformisti e pacifisti della cultura hippy. Queste riletture
cinematografiche possono assumere talvolta connotazioni apertamente
parodistiche: è il caso di Brian di Nazareth (1979) di Terry Jones, un
irriverente e divertente attacco alle istituzioni in cui i Monty Python sfogano
la propria ferocia iconoclasta.
In ambito italiano, l'approccio alla vita di Gesù è declinato
da differenti registi seguendo le proprie inclinazioni poetico-ideologiche. Con
Il Messia (1975) Rossellini costruisce un film dichiaratamente didattico, in cui
la fedeltà letterale ai Vangeli diviene fallimentare assemblaggio di santini in
una cornice molto televisiva. I medesimi limiti drammaturgici sono riscontrabili
anche in Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli, un collage cinematografico
costruito a partire da uno sceneggiato televisivo in cui si respira una
fastidosa oleografia: un film estetizzante denso di rimandi pittorici e teatrali
rimasto, purtroppo, nell'immaginario collettivo.
Ben diversa, al contrario, la visione di Pier Paolo Pasolini: già con La
ricotta, episodio del film collettivo Ro.Go.Pa.G (1963), l'autore friulano marca
la propria distanza dal biopic hollywoodiano realizzando un'opera di barocca
vitalità in cui Gesù diviene un "povero cristo", un sotto-proletario costretto a
confrontarsi quotidianamente con la fame e la disperazione. Pasolini utilizza la
drammaturgia del film sul cinema per calare questo inconsapevole dramma umano
nella cornice di un film estetizzante sulla Passione di Cristo: le stupende
immagini a colori della Deposizione citano esplicitamente il Pontormo e Rosso
Fiorentino, ma a differenza dell'acquiescenza zeffirelliana l'approccio
pasoliniano rivela una tensione dialettica straordinaria. Nel sottoproletario
Stracci inchiodato sulla Croce (e morto per un'indigestione) convivono i due
versanti del perdono: come buon ladrone fittizio è colui che chiede perdono,
come martire nell'indifferenza generale diviene colui che perdona, mimesi
imperfetta dell'exemplum cristico. Condannato dallo Stato italiano per
vilipendio alla religione, Pasolini ritorna sull'argomento l'anno successivo
firmando il più bel film tratto dai Vangeli, ovvero il Vangelo secondo Matteo.
Spogliato Cristo dai guanti di velluto con cui l'hanno dipinto i precedenti
registi, Pasolini recupera lo scandalo e la bellezza del messaggio evangelico
contestualizzandolo nel Sud d'Italia tra gli sguardi trasparenti di attori non
professionisti. Alternando diverse modalità espressive (macchina a mano e
rimandi "alti" alla pittura quattrocentesca), il cineasta riesce a penetrare
realisticamente nella materia trattata soffermandosi laicamente sugli aspetti
più disturbanti e crudi del sacro: si pensi all'incontro del Cristo con i
lebbrosi o alla crocefissione. Entrando da profano nel sacro, Pasolini, in
realtà, profana consapevolmente la tradizione cinematografica della vita di
Cristo ripulendola dagli abbellimenti edificanti e sfrondandola dall'iconografia
devozionistica.
Sulla stessa strada dello Stracci pasoliniano si collocano, per certi versi, altri film che illustrano la vita di "poveri cristi". Pensiamo a capolavori riconosciuti della storia del cinema: su tutti, Il diario di un curato di campagna di Robert Bresson che, dal romanzo omonimo di George Bernanos, racconta l'esistenza quotidiana di un giovane curato che progressivamente viene isolato dai parrocchiani e dai superiori. Il diario del curato - che infine morirà di cancro allo stomaco - segue le tappe della Via Crucis (lo svenimento, la caduta nel fango) per costruire una moderna figura Christi (si consideri l'alimentazione a base di pane e vino) che echeggia l'impotenza dell'uomo di fronte al Male. La traduzione moderna del messaggio evangelico in storie calate nella società attuale si rivela in molti casi la via migliore per un approccio alla figura di Cristo: lontane dalle - più o meno riuscite - contestualizzazioni storiche e dalla sterile parafrasi, le evocazioni cristologiche riacquistano limpidezza di sguardo e forza morale offrendo autentici esempi di cinema delle parabole. Un percorso che ha in autori tout court della storia del cinema le proprie tappe d'elezione: dal già ricordato Bresson, le cui parabole cinematografiche sono più o meno velate interrogazioni alla Grazia e conseguentemente interpellazioni sulla teodicea, a Carl Theodor Dreyer, autore di plurimi accessi al mistero motivati da una vocazione seria e rigorosa; da Luis Bunuel, la cui Weltanschauung contenuta nel celebre aforisma "Grazie a Dio sono ateo" è tutto fuorché sospensione a divinis, a Ingmar Bergman, che partendo dall'assenza di Dio nella moderna cultura costruisce un'incessante e drammatica ricerca del divino.
Questa cifra parabolica trova nuove trascrizioni nel cinema contemporaneo, vergata nelle filmografie di autori tormentati: pensiamo a Martin Scorsese che nel 1988 con L'ultima tentazione di Cristo (tratto dal romanzo omonimo di Nikos Kazantzakis) realizza un Cristo atipico, lontano sia dai cliché devozionistici sia dagli afflati rivoluzionari, riversandovi la propria tradizione religiosa italoamericana e l'incessante interrogarsi sul destino. Un'opera-scandalo che apre la strada ad approcci eterodossi ed innovatori, come il Jesus of Montreal - Gesù di Montreal (1989) di Denys Arcand, in cui l'opzione allegorica gioca sul discrimine tra realtà quotidiana contemporanea e racconto evangelico (in primis il Vangelo di Marco); I giardini dell'Eden di Alessandro D'Alatri (1998) ricostruzione degli "anni oscuri" di Gesù (dai dodici ai trent'anni) in precario equilibrio tra ancoraggio storico e ventate immaginifiche di stampo New Age; Totò che visse due volte di Daniele Ciprì e Franco Maresco (1998), in cui il Salvatore - ridotto a Totò - è inserito in uno scenario post-apocalittico in cui il grotesque accoglie con angoscia le forme di un delirio pervasivo.
Da questi più o meno estemporanei accostamenti alla vita di Gesù si passa con taluni autori a uno sguardo costante sul Cristo con filmografie che diventano polifoniche attualizzazioni della verità del messaggio evangelico. È il caso di Ermanno Olmi, la cui inattualità - nel senso migliore del termine - si offre quale spazio per il recupero di un'autentica dimensione cristiana, lontana da derive fideistiche e capace di abbandonarsi al mistero (si consideri il privilegio accordato dal regista alle forme narrative della fiaba, della leggenda e del racconto biblico). Accanto a Olmi, possiamo porre Krzysztof Kieslowski, la cui filmografia si interroga incessantemente sulla scelta etica con opere che trascendono in senso metafisico la mera analisi sociologica. Nel famoso Decalogo la disomogeneità dei singoli episodi in riferimento alla lettera dei Comandamenti è presupposto ineludibile per l'emersione in chiave gestaltica di una vibrante spiritualità, intima e universale al contempo.
Altri due registi che possono essere accostati in questa nostra sommaria panoramica sono il danese Lars Von Trier e l'americano Abel Ferrara: entrambi tormentati e disperati, condividono una poetica cinematografica che nell'oscurità e nella povertà delle immagini e nell'ambiguità delle storie trova la possibilità di confrontarsi con l'insopprimibile urgenza del vivere quotidiano, tracciando sulla pellicola parabole umane di dannazione e salvazione, di riscatto e di redenzione. Basti pensare per Von Trier a un film come Le onde del destino (1996) che nel solco della sgradevolezza e dell'esplicita emozionalità si costruisce quale discorso non solo per immagini, ma di immagini intorno alla presenza (con relative coppie antonimiche: dannazione/redenzione, peccato/purezza) del sacro nella nostra società. Come spazio eletto per quel ritorno surrettizio del sacro di cui ha parlato Girard, poi, si pone ineluttabilmente l'intero corpus ferrariano: pensiamo a Il cattivo tenente, in cui la sconcertante apparizione di Cristo a un vizioso poliziotto newyorkese diviene kenosis salvifica nel segno del perdono e del sacrificio, ma anche a The Addiction (1995), in cui l'uomo dipendente dal Male salvato in virtù della Grazia, o a Fratelli (1996), in cui un libero arbitrio portato alle estreme conseguenze spalanca la strada all'angosciosa interrogazione sulla teodicea.
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