Sabato 3 maggio - Ore 21:00
Domenica 4 maggio - Ore 21:00
Estate 1978. Michele ha nove anni e vive in mezzo alla campagna pugliese, coi genitori. La sua vita è fatta di pochi amici e molte corse in mezzo ai campi di grano, spesso in solitudine. Un giorno scopre un buco sotto terra, appena coperto da una lastra di metallo, nel quale si trova un altro bambino suo coetaneo: si chiama Filippo, è tutto sporco e terrorizzato. Quando a casa di Michele arriva da Milano Sergio, un amico di papà, Michele capisce tutto: Filippo è stato rapito, papà - Sergio - ed altri compari stanno cercando di avere il riscatto. La polizia sta perlustrando la zona, in più - una volta liberato - Filippo potrebbe riconoscere Michele, per questo la banda decide di uccidere il rapito. Michele non ci sta: di notte corre da Filippo, lo fa uscire dalla stalla abbandonata dove ora si trova. Michele non riesce ad uscire, però. In quel momento arriva il padre: è toccato a lui uccidere Filippo...
Mattia Di Pierro | Regia | Gabriele Salvatores |
(Filippo) | Soggetto | Niccolò Ammaniti |
Giuseppe Cristiano | Montaggio | Massimo Fiocchi |
(Michele) | Scenografia | Giancarlo Basili |
Dino Abbrescia | Fotografia | Italo Petriccione |
(Pino) | Sceneggiatura | Francesca Marciano |
Diego Abatantuono | Niccolò Ammaniti | |
(Sergio) | Costumi | Patrizia Chericoni |
Aitana Sánchez-Gijón | ||
(Anna) | Durata | 1h e 45' |
Valutazione Pastorale (dal sito dell'Associazione Cattolica Esercenti Cinema - ACEC)
Giudizio: Raccomandabile/problematico/dibattiti
Tematiche: Amicizia; Bambini; Famiglia - genitori figli; Letteratura;
Tratto dal romanzo omonimo di Niccolò Ammaniti che partecipando alla sceneggiatura ne ha condiviso novità e cambiamenti, il film rappresenta una ulteriore, convincente messa a fuoco da parte di Salvatores dei temi della crescita, dell'età evolutiva, della vita come maturazione anche di fronte alle difficoltà e al dolore. Dice il regista: "Racconto la perdita dell'infanzia. Un momento brutto ma necessario. E la scelta di tenere la macchina da presa a un metro e trenta era necessaria per ritrovare lo sguardo di un bambino che guida il film. Alla fine i perdenti sono gli adulti". L'infanzia dunque come momento della purezza. In un panorama rurale isolato e quasi straniato, dove però più forte è il contatto'fisico' con gli elementi naturali, si snoda una vicenda carica di forte umanità, scandita dal battito dei contrasti (innocenza/cattiveria, realtà/finzione), dall'ansia della paura, dall'idea dell'avventura, forse del sogno, del brutto sogno. Recuperando il ricordo di una recente, sofferta stagione civile e sociale italiana (i sequestri, i rapimenti...), il copione diventa cronaca delle asprezze della quotidianità ma anche appello alle capacità di sollevarsi al di sopra del peggio, facendo ricorso alla propria forza interiore. Tributo d'onestà per il meridione, il film è di incalzante spessore psicologico e poetico, lancia un messaggio forte di riscatto e di ribellione nel coraggio, non escludendo accenni più profondi nel cammino dalle tenebre alla luce, nella condivisione del pane, nell'accenno all'angelo che porta salvezza. Per tutti questi motivi il film, dal punto di vista pastorale, é da valutare come raccomandabile, problematico e adatto a dibattiti.
Utilizzazione: il film é da utilizzare in programmazione ordinaria e da recuperare in molte occasione, per gli argomenti interessanti e attuali che propone (l'infanzia, la crescita, il rapporto bene/male...).
Un gruppo di bambini, un mistero da svelare. Dal libro di Ammanniti uno dei film migliori di Salvatores
E' bello quando un regista si sforza di rinnovare il proprio rapporto col
cinema, inoltrandosi in esperienze diverse e lavorando sul linguaggio; come
ormai pochi hanno la pazienza (o il coraggio) di fare. Gabriele Salvatores,
a onor del vero, ci aveva già provato in più di un'occasione: uscito dalla
serie dei film generazionali, che rischiavano di diventare una formula, con
Nirvana e Denti aveva affrontato esperimenti coraggiosi, però non del tutto
riusciti. Era un po' di tempo, insomma, che aspettavamo da lui un risultato
più completo, più integro, il titolo da segnare come una tappa importante
nella sua filmografia: e Io non ho paura lo è. Per cominciare è un ottimo
adattamento del romanzo di Niccolò Ammaniti (rielaborato per lo schermo
dallo scrittore "pulp" italiano assieme a Francesca Marciano), perché riesce
a essere come dire? mostrato alla prima persona, come alla prima persona il
libro è narrato e come dichiara esplicitamente il titolo. Inoltre, è un
sofisticato lavoro sulle immagini: la macchina da presa di Italo Petriccione
conduce lo spettatore a volo per una distesa di campi dalla luminosità
abbacinante; poi lo precipita sottoterra, nell'oscurità claustrofobica di
una fossa impenetrabile alla luce. Il punto di vista è quello di Michele, un
ragazzo di dieci anni che vive in un microscopico borgo nel cuore della
campagna pugliese.
Durante un'estate torrida, Michele scorrazza per i
campi assieme alla sorellina e a un gruppo di coetanei: una piccola banda
pronta a sfidarsi in prove di coraggio gratuite che ricorda, abbastanza di
vicino, i personaggi di alcuni racconti usciti dalla penna di Stephen King
(in particolare Stand by Me, da cui Rob Reiner ha ricavato un bel film).
Anche il clima narrativo, che implica una sorta di "spirito del luogo", è
simile, pur senza comportare imitazione: l'in-famigliarità del famigliare,
l'evento inaspettato, e inconcepibile, che irrompe all'improvviso nella vita
monotona dei personaggi. Il fatto eccezionale, nel caso, è la scoperta un
ragazzo selvaggio incatenato in un buco nel terreno: in realtà si tratta di
un piccolo principe, Filippo, figlio di una ricca famiglia del Norditalia
sequestrato a scopo di riscatto. L'avvicinamento dei due coetanei è lento,
circospetto; poi il ragazzo del Sud diventa il protettore del prigioniero,
senza sapere che i suoi genitori sono coinvolti nel rapimento. La buona
scelta di Salvatores è stata quella di raccontare una storia appassionante
(con tanto di 'arrivano i nostri' finale, che a Berlino ha scontentato
qualcuno ma, in fondo, non ci sta affatto male), rivelando però, dietro
l'apparente semplicità dei fatti, uno sguardo acuto su temi seri come il
rapporto tra bambini e adulti, i riti di passaggio da un'età all'altra, la
perdita dell'innocenza. Ma soprattutto, è stata quella di posizionare la
macchina da presa ad altezza di ragazzino, focalizzando gli eventi
attraverso il punto di vista (ingenuo, romanzesco, mitico) di Michele in
modo da costituire per lo spettatore un alter-ego infantile attraverso il
quale osservarli. Il risultato è originale e sapiente; di più: una ricerca
di linguaggio di grande rigore formale mascherata sotto la linearità e
l'apparente facilità del racconto. Ottimo anche il lavoro di casting: un
gruppo di ragazzini (solitamente difficili da gestire sullo schermo) più
veri del vero, attori adulti poco noti ma bravi e morfologicamente aderenti
ai ruoli e Diego Abatantuono che, come balordo venuto dal Nord, per una
volta fa la sua parte senza lasciarsi andare a estemporanei esercizi di
"personalizzazione" del film. (Roberto Nepoti)
"Ecco il film che attendevamo da Gabriele Salvatores, le cui ultime prove ci avevano interessato senza persuaderci del tutto. 'Io non ho paura' è un risultato compatto, completo (...) L'atmosfera del romanzo di Niccolò Ammaniti (anche sceneggiatore) comporta uno 'spirito del luogo' che evoca un certo Stephen King. Salvatores lo coglie benissimo, con l'aiuto della macchina da presa di Italo Petriccione, passando dalla luce abbacinante del campo al buio e tenendo l'inquadratura costantemente ad altezza di bambino, in modo da costituire per lo spettatore un alter-ego infantile attraverso il quale osservare gli eventi". (Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 9 febbraio 2003)
"Di solito il cinema non racconta i bambini, li usa per fare piangere o ridere. E di solito quando un regista adatta un romanzo per lo schermo rischia di tradirlo troppo, snaturandolo, o troppo poco, limitandosi a una piatta illustrazione. Invece Gabriele Salvatores è riuscito a fare un film sui bambini, con la sensibilità di un Comencini o di un Truffaut, e a tradurre in immagini il bel romanzo di Niccolò Ammaniti, senza tradirlo, ma facendolo diventare puro cinema, dinamico e profondo. (...) Oltre a dimostrare di saper usare l'immagine per trasformare simboli, etica e nostalgia in concretezza narrativa e in ritmo coinvolgente, Salvatores è stato molto bravo nella scelta e nella direzione dei suoi attori (e non attori). Cristiano, dai grandi occhi espressivi, ha la giusta introversione e una convincente purezza, Di Pierro una perfetta e indifesa angelicità; il padre Dino Abbrescia le necessarie ruvidità e impotenza e la madre Aitana Sànchez-Gijon la giusta dolente bellezza. Ma forse la vera sorpresa è Abatantuono, carogna fino all'ultima battuta, che, con raffinata misura, va a pescare il suo lombardo cattivo con stecchino fra i denti direttamente dal bar del Giambellino. (Stefano Lusardi, 'Ciak', 28 febbraio 2003)
"Scritto dallo stesso Ammaniti con Francesca Marciano, il film lascia l'Italia ancor più sullo sfondo per concentrarsi sui bambini e sulla loro visione delle cose. Ma a forza di smussare e ingentilire i toni, Salvatores cade in una medietà di stile che piacerà forse alle grandi platee ma convince solo in parte chi diffida dei cliché. (...) Reclutati sul posto i piccoli attori, Salvatores non va fino in fondo. Da un lato segue il percorso interiore di Michele, il disagio palpabile in famiglia, i giochi crudeli, le fantasie bizzarre circa il rapito. Dall'altra smorza i dialetti, esalta le immense distese di grano, cerca appena può il contrappunto comico o grottesco, non cerca immagini nuove ma usa toni e colori quasi da spot. Finendo col rendere inoffensivo perfino il mondo brulicante e minaccioso in cui è confinato il piccolo rapito, lordo dei suoi escrementi e convinto di essere già morto visto che i suoi genitori non lo vengono a prendere. Insomma, è come se i fantasmi evocati fossero fin troppo minacciosi per lasciarli scorrazzare liberamente sullo schermo, e si dovesse per forza addomesticarli scegliendo i toni più lievi. Ma è un calcolo di natura commerciale che spegne la materia ribollente di 'Io non ho paura' e lo condanna a restare nell'affollato limbo delle occasioni a metà". (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 14 marzo 2003)
"Allarmante come una favola nera, teso come un thriller, curioso come un gioco, 'Io non ho paura', che Gabriele Salvatores ha tratto quasi fedelmente dal romanzo di Niccolò Ammaniti, è davvero un bel film: forte, ben strutturato e girato, semplice ed estremamente raffinato, con bravi interpreti bambini e non, con un forte senso della Natura, senza patetismi né moralismi. (..) La bellissima storia è raccontata come meglio non si potrebbe. Nessun luogo comune, niente metafore, asciutta sobrietà, realistica serietà. I bambini non vengono eletti a simboli d'innocenza: i loro giochi sono prepotenti e crudeli quanto gli affari sporchi degli adulti; nel bambino salvifico, curiosità e spirito d'avventura sono forti quanto la bontà; quando capisce cosa stiano facendo i propri genitori, il bambino non li giudica ma disobbedisce e per contraddizione rimedia alle loro colpe. Gli adulti non vengono promossi carogne: agiscono orribilmente per miseria, ignoranza o follìa, per obbedienza meridionale a Diego Abatantuono, desolato capobanda settentrionale. I bambini sono filmati con grande naturalezza nelle corse a perdifiato in bicicletta e nei giochi, ma l'occhio che guarda è adulto. (..) La famiglia non esiste: la madre furente e il padre assente sono soltanto persone che si arrabbiano, che chiedono complicità, che danno fastidio e danno da mangiare. In tutta la vicenda straziante, una autentica prova di maturità, bravura, intelligenza: neppure per un attimo si indulge al sentimentalismo, non vengono mai le lacrime agli occhi". (Lietta Tornabuoni, 'La Stampa', 14 marzo 2003)
"Partito da un esile e fortunato romanzo di Niccolò Ammaniti (che deve qualcosa a 'Stand By Me' di Stephen King), Gabriele Salvatores narra 'Io non ho paura' con un bel passo lento, riducendo al minimo i dialoghi. Il tema non è la perdita dell'innocenza, ma la possibilità di lottare contro i mostri che ci assediano il cuore. Le favole sono più spaventose, se l'orco è il padre amoroso. Nonostante qualche eccesso di calligrafia (un po' di spighe di troppo, l'inquadratura finale), Salvatores, dopo alcuni film coraggiosi, ma sbagliati, ritrova una vena tesa e compatta, poeticamente sgomenta". (Claudio Carabba, 'Sette', 26 marzo 2003)