Martedì 27 gennaio 2015 - Giorno della memoria - Ore 21:00
Ingresso: 3.00 €
Nel 1940, la filosofa ebreo-tedesca Hannah Arendt fugge con il marito e la madre dagli orrori della Germania nazista e, grazie all'aiuto del giornalista americano Varian Fry, si trasferisce negli Stati Uniti. Divenuta tutor universitario e attivista della comunità ebraica di New York, Hannah inizia a collaborare con alcune testate giornalistiche, tra cui il New Yorker che la invia in Israele per seguire da vicino il processo contro il funzionario nazista Adolf Eichmann. Da qui Hannah prenderà spunto per scrivere il libro "La banalità del male", un testo che susciterà molte controversie...
Regia: Margarethe von Trotta
Interpreti: Barbara Sukowa, Axel Milberg, Janet McTeer, Julia Jentsch, Ulrich Noethen, Michael Degen
Sceneggiatura: Margarethe von Trotta
Fotografia: Caroline Champetier
Montaggio: Bettina Böhler
Durata: 1 ora e 57 minuti
Nitido nelle luci, lucido nelle psicologie, convincente negli esiti: Margarethe Von Trotta rilegge La banalità del male
Nel corso della sua ormai lunga carriera (esordio con Il secondo
risveglio di Christa Klages, 1978) Margarethe Von Trotta ha già diretto
Rosa Luxembourg, 1986, sull’attivista socialista, e Rosenstrasse, 2003,
sulle donne di Berlino negli anni bui del nazismo. Può essere
considerato il completamento di una ideale trilogia dedicata alla storia
tedesca del XX secolo questo suo nuovo film, che fin dal titolo
chiarisce intenzioni e obiettivi.
Hannah Arendt non è dedicato alla
filosofa e teologa tedesca, nata ad Hannover nel 1906, imprigionata per
un breve periodo dalla Gestapo nel 1933, sposatasi in seconde nozze con
Heinrich Blucher nel 1933 e emigrata con marito e madre nel 1941 negli
Stati Uniti. Queste note biografiche emergono semmai in vari momenti del
racconto principale: che coglie Hannah in età ormai matura quando a New
York arriva la notizia dell’arresto di Adolf Eichmann e la decisione di
Israele di processarlo in Patria. Ottenuto dal New Yorker l’incarico di
inviata speciale, Hannah segue per tre anni il dibattimento. Quando
torna a casa, scrive cinque articoli sul giornale e, subito dopo,
pubblica il libro La banalità del male, che esce nel 1963 e scatena
subito una marea di reazioni tra il sorpreso e l’indignato soprattutto
nelle varie comunità ebraiche.
Se consideriamo che parlare male di quel libro è atteggiamento ancora oggi attivo tra le generazioni più lontane dagli avvenimenti, ne concludiamo che la scelta della Von Trotta è pienamente legittima e ben motivata. Si tratta di non aver paura di discutere e riflettere, di innervare filosofia e speculazione storica dentro ideologia e pensiero unico. A ridare vigore, forza, concretezza alla vita e al lavoro della Arendt provvede poi Von Trotta con un’opera di alto livello qualitativo ed espressivo. Nitido nelle luci e negli ambienti, lucido nelle psicologie anche minori, calato in una dinamica ricostruzione degli spazi e delel geometrie esistenziali , il film trova in Barbara Sukova un’interprete capace di restituire una Arendt donna del suo tempo e ugualmente esempio per le donne di oggi. Un prova convincente per la regista tedesca, dopo qualche passo falso. (Massimo Giraldi)
"La critica giapponese lo ha messo tra i dieci migliori film dell'anno, e sul New York Times lo hanno definito: «Un film ardente, che si avrebbe voglia fosse una miniserie per prolungare il piacere della visione». Ha una giusta punta d'orgoglio nella voce quando lo dice, e gli occhi che brillano, Margarethe Von Trotta. Eppure questo suo 'Hannah Arendt' in Italia non ce l'avrebbe mai fatta a uscire in sala (...) senza l'energia di una piccola distribuzione indipendente, la Ripley's che lo distribuisce in versione originale - fondamentale per capire il lavoro sull'accento fatto dalla protagonista, Barbara Sukowa, icona della cineasta, nel dare vita alla filosofa tedesca. Una storia di donne possiamo anche dire, in affinità a quei personaggi femminili di intelligenza rivoluzionaria e disturbante - in un mondo maschile - che abitano il cinema di Von Trotta: tra le altre Rosa Luxemburg, Hildegard von Bingen, o le sorelle di 'Anni di piombo', perché Von Trotta come molto cinema tedesco della sua generazione (penso a Fassbinder) ha scavato dentro al terrorismo nel suo paese senza retorica né enfatici imbarazzi bugiardi. Lei sorride, e racconta di quando girando alcune scene in Lussemburgo, nell'ufficio del rettore dell'Università, questi le abbia detto: «Non ho mai sentito muovere rimproveri e accuse a colleghi maschi come quelli scagliati contro Arendt». La definirono senza sentimento, fredda, dura. Arrogante, persino nazista, lei che era ebrea, finita nei campi, e sfuggita quasi per azzardo alla deportazione e allo sterminio. Per non dire delle «gentili» missive con aggettivi più comuni quando si parla di donne, puttana in testa. Siamo nel 1960, a New York, dove Arendt vivrà fino alla morte, nel 1975. Il periodo che Von Trotta, e la co-sceneggiatrice del film Pamela Katz hanno scelto per il film, è quando la filosofa accetta la proposta del New Yorker di coprire per loro con una serie di articoli il processo in Israele al nazista Adolf Eichmann. Arendt a differenza di altri vuole capire cosa è accaduto, le ragioni e le modalità. E anche altro, perché ad esempio, il suo maestro Heidegger si era messo dalla parte dei nazisti. (...) vedendo la 'Hannah Arendt' di Von Trotta, non stupisce la passione di Sivan, tra i registi israeliani più lucidi e pure più detestati in Israele, per lei. Anche di Sivan dicono che è arrogante e pieno di disprezzo perché nei suoi film rifiuta l'ideologia della vittima, elemento fondante la mitologia dello stato ebraico. Nel suo nuovo film, 'Le Dernier des Injustes', il regista francese Lanzmann riprende in mano una lunga intervista, realizzata nel '75 a Roma, con Benjamin Murmelstein, il rabbino che nel '44 è stato il responsabile del Consiglio ebraico nel ghetto di Terezina, e tra i pochissimi sopravvissuti. Murmelstein, e con lui Lanzmann, parla con disprezzo di Arendt dicendo che non aveva capito nulla, eppure ascoltando quella zona di ambiguità implicita - o forse necessaria - nel suo operato le considerazioni di Arendt appaiono estremamente precise." (Cristina Piccino, 'Il Manifesto', 16 gennaio 2014)
"Arendt vs Eichmann. Ovvero la genesi de 'La banalità del male'. Su questa, infatti, poggia la trama del nuovo lavoro della cineasta tedesca incentrato sulla filosofa/teorica della politica che tanto divise l'opinione negli anni 60, specie nella comunità ebraica. Inviata spontanea del New Yorker a Gerusalemme per il celebre processo Eichmann del '63, realizzò che l'ex SS 'non era un demone, ma un uomo qualunque che aveva rinunciato a pensare, cioè ad essere un Uomo'. Da qui 'La banalità del male', tra i saggi più controversi del '900. II racconto della von Trotta è limpido e mai 'banale', considerando la difficoltà di mettere-in-film il pensiero filosofico nel suo farsi. Sukova perfetta nei panni di una Arendt tormentata e caparbia." (Anna Maria Pasetti, 'Il Fatto Quotidiano', 6 febbraio 2014)