Attilio De Giovanni è un poeta innamorato della poesia e della bella Vittoria, che però non corrisponde al suo amore. Per conquistarla, l'esuberante Attilio non esiterà a cacciarsi nelle situazioni più assurde e più comiche che porteranno la sfortunata coppia in Iraq, proprio all'inizio del conflitto con gli americani. Attilio, senza conoscere una sola parola di arabo, inizia la sua guerra personale armato solo di poesia...
Venerdì 14 ottobre | Ore 21:00 |
Sabato 15 ottobre | Ore 21:00 |
Domenica 16 ottobre | Ore 16:00 e 21:00 |
Sabato 22 ottobre | Ore 21:00 |
Domenica 23 ottobre | Ore 16:00 e 21:00 |
Sabato 29 ottobre | Ore 21:00 |
Domenica 30 ottobre | Ore 16:00 e 21:00 |
Lunedì 31 ottobre | Ore 21:00 |
Martedì 1 novembre | Ore 21:00 |
Regia | Roberto Benigni |
Sceneggiatura | Roberto Benigni |
Vincenzo Cerami | |
Soggetto | Roberto Benigni |
Vincenzo Cerami | |
Fotografia | Fabio Cianchetti |
Roberto Benigni | Attilio De Giovanni |
Nicoletta Braschi | Vittoria |
Emilia Fox | Nancy |
Jean Reno | Fuad |
Valutazione Pastorale (dal sito dell'Associazione Cattolica Esercenti Cinema ACEC)
Giudizio: accettabile, poetico
"Il titolo -spiega Benigni- è preso dalla raccolta di poesie che si dice abbia scritto il protagonista Attilio. C'è il gusto dei contrari: il candore della neve contro la ferocia della tigre, ma anche l'opposto, perché anche le tigri possono essere candide e la neve può essere feroce. Era bello l'incontro di questi elementi". Con Benigni si era rimasti al 2002, quando il burattino Pinocchio alla fine della favola si sdoppiava e la sua ombra se ne andava per vivere una vita propria. Quell'ombra prende le fattezze di Attilio De Giovanni, sbadato, allegro, solo sfiorato dalle vicende del mondo. Insomma un poeta, quindi un incosciente, capace di correre sotto le bombe, di saltellare sui campi minati, di pensare che una soluzione si può trovare senza mai disperarsi. "Sono contento di essere vivo e anche da morto mi ricorderò di quando ero vivo" dice nel momento più difficile. Se Pinocchio era un burattino indifeso, il poeta Attilio lo è altrettanto. E la poesia é l'unica arma pulita che l'uomo può opporre alla follia delle armi vere, l'unica cultura della vita contro quella della morte in guerra. Il poeta é così, senza vie di mezzo. Non si può non essere al suo fianco: quando esorta a cercare l'armonia nelle parole, quando non si rassegna alla fine del suo amore, quando si lascia andare ad una preghiera tanto improvvisata quanto sincera. Resta solo da aggiungere che l'obiettivo di mettere in primo piano la poesia ha preso la mano al suo autore, al punto da rendere nella seconda parte l'accumulo di lirismo un po' insistito e ripetitivo. Il ruolo poi di protagonista/mattatore rende alquanto sbiaditi e affrettati i personaggi di contorno. Dal punto di vista pastorale, il film é del tutto positivo, da valutare come accettabile e certamente poetico.
"Non so sottrarmi alla tentazione di giocare al play's doctor ovvero di abbozzare qualche riserva soprattutto a livello drammaturgico. Il che non intende sminuire il brillante risultato dell'impresa. E spero proprio che Benigni non si allarmi, come fece Fellini di fronte alle critiche di Rossellini su 'Lo sceicco bianco'. Sollevando un paio di misurate obiezioni su taluni aspetti particolari non vorrei togliere un solo spettatore al film, anzi spero di farne tornare qualcuno al cinema la seconda volta per il gusto di darmi torto. 'La tigre e la neve' è costruito infatti dall'autore e dal valido collega di penna Vincenzo Cerami come una scatola a sorpresa. Misuro le parole, per non guastare la festa a chi vuol scoprire da sé come va a finire. La sorpresa riguarda il rapporto di Attilio con Vittoria (Nicoletta Braschi), che si rivelerà diverso da come appare sulle prime. Niente di male, tranne che in seguito si viene configurando un'ulteriore possibile sorpresa, in attesa di vedere se la donna scoprirà chi le ha salvato la vita, proprio come la fioraia di 'Luci della città' scopre l'identità del clown che le ha ridato la vista. Attenzione, però: due sorprese sono troppe, una ammazza l' altra. Altra osservazione. A Jean Reno, affascinante nei panni del poeta arabo Fuad, va riconosciuto l'impegno di recitare in italiano. Ma la sua vicenda, pur fungendo da contrappeso tragico in un film volentieri sconfinante nella farsa, risulta poco motivata al momento della scelta definitiva. Forse alcune sue scene sono cadute nel taglio di tre quarti d'ora di film. Ne è conseguito un impoverimento della contrapposizione fra il pessimismo della ragione di Fuad e l'ottimismo della volontà che prorompe dall'esuberanza di Attilio. Qui c'era una dialettica da sviluppare alla luce della stoica constatazione che essere un poeta a Roma o a Bagdad continua a fare una grande differenza. Un occidentale nell'inferno asiatico può salvarsi gridando 'I' m italian!', ma un nativo cosa grida? Nei territori del dolore noi siamo in transito e loro ci vivono. Un'altra obiezione riguarda proprio la cornice irachena del film, che tra riprese in Tunisia ed effetti speciali non regge il confronto con ciò che abitualmente offre Hollywood. Nelle situazioni in cui il nostro cinema affronta situazioni di grosso respiro incombe sempre il rischio delle nozze coi fichi secchi. E tuttavia basta il momento in cui Benigni di fronte all'amata in coma è tentato di pregare Allah e recita invece il Padrenostro, quasi inventando le parole, per trasportare il film nei cieli della poesia. Dove spaziava Attilio (quello vero) e dove la Settima arte raramente perviene." (Tullio Kezich, 'Corriere della Sera', 14 ottobre 2005)
"Curiosamente, il dato che ha provocato malcelate delusioni e stizze è soprattutto l'approccio con cui viene presa di petto l'attualità: troppo buono con i soldati Usa, troppo generico di fronte al caos iracheno, troppo paternalista nell'evocare i movimenti per la pace? Tutte note, per così dire, fuori testo, tanto più incongrue quanto più accompagnate dallo stentoreo ribadimento della statura chapliniana dell'autore/attore. Protagonisti. Anche il folletto irruente e parolacciaro deve fare i conti col calendario. Forse per questo fa una certa impressione vederlo smarrirsi nel patetico dei primi piani, piroettare sui temi d'amore con una seriosità inversamente proporzionale alla povertà del dialogo. Poi c'è lo scoglio Nicoletta Braschi, che diventa quasi la protagonista del film e lo costringe a concentrarsi sui suoi imbarazzanti impacci professionali. Senza contare che Jean Reno, ipotetico contrappeso tragico dell'andamento allegro, si cala nei panni del poeta arabo con la distratta rassegnazione di un ingaggio al minimo sindacale. Drammaturgia. La chiave narrativa è il valore universale della poesia contrapposto all'insensatezza dei conflitti politici particolari: ma accumulare citazioni su citazioni dallo scaffale migliore del bravo intellettuale non basta a sorreggere una favoletta buona per tutti i palati e neppure a nobilitare l'abc del cinema melodrammatico popolare. Per di più i brani d'azione bellica, che dovrebbero risultare purtroppo cruciali, non vanno al di là della pantomima allestita alla buona in set occasionali. Significati. I sogni & bisogni benigneschi - come del resto qualche battuta riuscita e qualche situazione surreale - hanno sempre una loro aggraziata originalità, ma stavolta sono distribuiti a mano libera nell'insistito contrappunto tra l'ammiccante, lo scontato e il superfluo. L'impronta dell'autore, in definitiva, emerge proprio nella pietra dello scandalo e cioè nel buffo, vitalistico e persino coraggioso sconcerto che filtra i ringhiosi dibattiti sulle pene di Baghdad, strumentalizzate a destra e a manca per meri interessi di parte." (Valerio Caprara, 'Il Mattino', 15 ottobre 2005)
"E' possibile che una graduatoria dei cento registi più importanti ignorerebbe, nonostante l'Oscar, Roberto Benigni. Ma che vuol dire? Ogni metro convenzionale con lui salta, è inservibile e ininfluente. Guardando questo come ogni suo film viene il desiderio di immaginare come uno spettatore degli anni Venti o Trenta percepiva un film di Charlot. Non possiamo saperlo, naturalmente, che cosa gli passava nella mente e nel cuore, e d'altra parte l'ingenuità, la semplicità e l'immediatezza dell'accostamento al cinema di 70, 80 anni fa non esistono più e sono irrecuperabili. Con un'eccezione: Benigni è forse oggi l'unico che un po' riesce a restituirle e riportarle in vita. Benigni, senza retorica, è un vero miracolo. (...) La vitalità poetica, fantasiosa, innamorata, in definitiva la fede nella vita, può battersi e forse vincere contro tutti gli ostacoli e tutte le brutture di cui è capace l'umanità, dà nelle condizioni più disperate e ostili la forza per non arrendersi e resistere. Togliete questa enunciazione, diciamo pure questa verità, dalla bocca, dall'espressione, dalla gestualità, dalla inimitabile comunicativa di Benigni e si sgonfierà sotto gli sguardi scettici o cinici dei più che direbbero: non scherziamo, la guerra vera è un'altra cosa da questa favoletta. A lui, invece, crediamo. E mettendo da parte ogni considerazione 'critica' - la prima delle quali, confermata, è che Roberto è un regista piuttosto mediocre - non possiamo che ringraziarlo per quello che ci dà." (Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 15 ottobre 2005)