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Basri è un uomo solitario, che appare totalmente distaccato dalla propria vita. Lavora come guardiano delle ferrovie, controllando ogni giorno a piedi chilometri di binari nel vasto paesaggio dell’Anatolia. Il suo unico figlio, Seyfi, è stato arrestato 18 anni fa e da allora nessuno ha mai più avuto notizie. Dopo la morte della moglie, Basri si è lentamente isolato dalla società. Ma nella sua vita c’è ancora una speranza, che lo spinge, due volte al mese, a scrivere petizioni alle autorità per avere notizie del figlio.
Premio Leone del Futuro, Premio Venezia Opera Prima (Luigi de Laurentiis) alla 69. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (2012)
Regia: Ali Aydin
Interpreti: Ercan Kesal, Muhammet Uzuner, Tansu Biçer
Sceneggiatura: Ali Aydin
Fotografia: Murat Tuncel
Durata: 1 ora e 34 minuti
Il Leone del Futuro Ali Aydin ci fa l'esame di coscienza: tra Dostoevskij e denuncia, un potente ready-made in Turchia
No, non è un film italiano. Anche se odora lontano un miglio di neorealismo, non lo è: il titolo, Muffa, per di più di un esordiente, Ali Aydin, lo boccerebbe qualsiasi produttore nostrano, per non parlare del marketing. Ma c’è dell’altro, “l’unica cosa che mi ha fatto scrivere questa storia è la mia coscienza” da quanto non si sente qui da noi?
Leone del Futuro all’ultima Mostra di Venezia, Film della critica Sncci, Muffa (Küf) è perfettibile, ma insieme tosto, cupo, ineluttabile, parla di solitudine, speranza e senso di colpa, parla dell’uomo per l’uomo, e il grimaldello l’ha già tirato fuori il regista: Dostoevskij.
Con buonissimi motivi, fatte le debite proporzioni, perché il suo Basri, guardiano delle ferrovie, cammina senza requie e senza senso sui binari turchi e tra le pagine dello scrittore russo, mosso da un’unica – irragionevole - ragione: sapere che ne è del figlio Seyfi, arrestato per motivi politici e scomparso 18 anni prima. Ogni mese scrive due lettere, a ministro degli Interni e Questura, ogni mese non ha risposta, fuorché periodici interrogatori, con torture annesse. A testa bassa, persino acefalo, disperatamente abulico, Basri va avanti, sventa uno stupro, cade preda di attacchi epilettici, non sventa, potrebbe farlo, l’atroce morte di un collega.
Basri (Ercan Kesal, ottimo) va avanti, contro il sistema, contro la mera probabilità, come un giocatore perso tra notti bianche, come un’idiota tra gli umiliati e gli offesi, attaccato a quel che rimane dietro ogni perdita: ciò che si è perso. Un figlio, l’idea sfatta carne del figlio che c’era, che era.
Aydin parte dall’associazione Cumartesi Anneleri, “le madri del sabato”
che ogni sabato davanti al liceo Galatasaray protestano per i propri
figli o fratelli scomparsi (eufemismo) nelle carceri, ma non si ferma
alla lettera dell’impegno, della denuncia civile: dalla cronaca passa
alla letteratura, dalla piaga sociale al vulnus interiore, il dolore con
nome e cognome, raffreddando la forma (pochi movimenti di macchina, un
lungo piano sequenza rivelatore, il movimento nel quadro) e arroventando
le coscienze.
La poetica è quella del ready-made: un soggetto (Basri)
strappato all’uso quotidiano (cronaca) per assurgere a uno status altro,
artistico (Cinema). La comprensione – e la comprensibilità - è
universale, e memore: il neorealismo, appunto, e più vicini Nuri Bilge
Ceylan, gli iraniani di qualche decennio fa, i romeni di qualche anno
addietro, il cinema povero senza esibizione, ricco dentro.
Rimane la muffa, il segno della decomposizione del figlio, della marcescenza del padre. E rimane Muffa, il segno di un autore che sarà, e di un film che è: un esame di coscienza, questa sconosciuta. (Federico Pontiggia)