Vedi: Cineforum 2014 - La grande bellezza
Il nuovo film di Paolo Sorrentino, interpretato da un cast di grandi attori italiani. Roma si offre indifferente e seducente agli occhi meravigliati dei turisti, è estate e la città splende di una bellezza inafferrabile e definitiva. Jep Gambardella ha sessantacinque anni e la sua persona sprigiona un fascino che il tempo non ha potuto scalfire. È un giornalista affermato che si muove tra cultura alta e mondanità in una Roma che non smette di essere un santuario di meraviglia e grandez
Regia: Paolo Sorrentino
Interpreti: Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Serena Grandi, Vernon Dobtcheff, Isabella Ferrari, Luca Marinelli, Giorgio Pasotti, Giulia Di Quilio, Massimo Popolizio, Giorgia Ferrero, Roberto Herlitzka, Carlo Buccirosso, Pamela Villoresi, Ivan Franek, Stefano Fregni
Sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Umberto Contarello
Fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Cristiano Travaglioli
Musiche: Lele Marchitelli
Durata: 2 ore e 22 minuti
Valutazione Pastorale (dal sito della CNVF della Conferenza Episcopale Italiana)
Giudizio: Complesso, problematico, dibattiti
Tematiche: Cinema nel cinema; Droga; Male; Metafore del nostro tempo; Potere
Forse, superato il mezzo secolo dal'uscita in sala (1961) e dalla Palma d'Oro vinta a Canne 1960, i tempi erano maturi per un nuovo affresco sulla Roma contemporanea. Dice Sorrentino: "...rispetto alla bellezza della città, mi sento sempre come un visitatore sopraffatto dalla meraviglia. Eppure Roma è una città che lascia presagire indecifrabili pericoli, una sensazione di irrisolvibile, antico mistero, che ti può far sentire fuori luogo (...)". Il regista accarezza i contorni monumentali e museali della città con insinuante aderenza, da subito alternando un sacro intinto nell'inchiostro con un profano intriso di decadente aggressività. I due aspetti procedono di pari passo, intraprendono la strada che conduce al "nulla". E' la cifra dominante del copione, quella che Jep dichiara e che diventa una sorta di manifesto valido per tutti. La grande bellezza" in realtà nessuno l'ha trovata, quella di strade e palazzi langue nella polvere dei secoli che passano, affidati a nobili e custodi come larve e mummie invisibili. Su terrazzi e dentro le ville, esseri umani in lotta tra loro si agitano, mossi solo (quasi) da edonismo e piacere sfrenato. La cultura è un pretesto, la comprensione un'arma per prevalere sull'altro. Uno strisciante nichilismo corrode le menti, gela i cuori, la possibilità di salvezza è nella rinuncia o nella fuga. L'affresco è duro, serrato impietoso, da una parte realistico, dall'altra carico di segni e simbolismo anche oltre il necessario. E'indubbio il fascino di molte sequenze, ma nell'arco dei 142' si fa strada l'impressione di una certa scrittura un po' forzata, a tavolino. La bellezza insomma sarebbe ormai simbolo di declino, di perdita, della fine dei valori riconosciuti. Uguale a quella di Fellini? L'interrogativo resta sospeso. E il film, dal punto di vista pastorale, è da valutare come complesso, problematico e adatto per dibattiti.
Utilizzazione: il film è da utilizzare in programmazione ordinaria, e in successive occasioni per avviare riflessioni sui molti spunti che suscita. Molta attenzione è da tenere per minori e piccoli in vista di passaggi televisivi o di uso di dvd e di altri strumenti tecnici.
L'estetica, l'etica e il sacro: l'uomo "miserabile" e lo stupore nel dirompente film di Sorrentino, in Concorso
"E' tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore. Il silenzio e il sentimento, l'emozione e la paura. Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l'uomo miserabile". Roma, la sua grande bellezza, scorre sotto gli occhi di Jep Gambardella (Toni Servillo): in lontananza, costante, il Choir Of The Temple Church esegue The Lamb di John Tavener, dalla celebre poesia di William Blake, raccolta in "Songs of Innocence", in cui il poeta-bambino-agnellino scorge il mondo con l'innocenza tipica dell'infanzia. In mezzo, la sacralità eterna di una città commovente e disperata accoglie e rigetta i suoi figli naturali e adottivi. Jep è tra questi ultimi, sessanticinquenne campano arrivato a Roma a 26 anni e "precipitato abbastanza presto, quasi senza rendersene conto, in quello che si potrebbe definire il vortice della mondanità". Ma "io non volevo essere semplicemente un mondano. Volevo diventare il re dei mondani. Io non volevo solo partecipare alle feste: volevo avere il potere di farle fallire".
Il sacro (I lie di David Lang) e il profano (Far l'amore di Raffaella Carrà nel remix di Bob Sinclair), la beatitudine (Kronos Quartet) e il classico (My Heart's in the Highlands di Arvo Part, il Dies Irae di Zbigniew Preisner) contrapposti e mescolati al caos e al caduco (We No Speak Americano, Mueve la Colita): nel cielo, semitrasparente, La grande bellezza si dissolve come la sovrimpressione che dà il titolo al nuovo lavoro di Paolo Sorrentino, oggi in Concorso a Cannes e nelle sale italiane.
Interamente ambientato e girato a Roma, scritto dallo stesso regista insieme a Umberto Contarello, il film segue come detto l'incedere di Jep Gambardella, giornalista e scrittore dolente e disincantato (unico romanzo all'attivo L’apparato umano, premiato con il "Bancarella" molti anni prima, come gli ricorda l’amico interpretato da un Carlo Verdone malinconico e svuotato), animale notturno e festaiolo, osservatore e frequentatore di un'umanità vacua e disfatta, potente e deprimente: dame dell’alta società più o meno sfatte, criminali d’alto bordo, attori, nobili decaduti, alti prelati, artisti e intellettuali veri o presunti legati da rapporti inconsistenti e fagocitati in una babilonia disperata che si agita nei palazzi antichi, le ville sterminate. Che si stagliano nel vuoto di una Roma calda e sedata, indifferente come una diva morta.
La "vita", quello che ne rimane, affoga in gin tonic e in chiacchiere da talk show, soccombe sotto i decibel di terrazze con vista "Martini" (via Veneto), si nasconde in strip-club o in esclusivi "botox party": all'alba, poi, nel silenzio di un cammino solitario, affida alle correnti del Tevere l'oblio di un'esistenza che sembra aver perso gli stimoli per una ricerca di senso.
L'estetica, l'etica e il religioso: seguendo i movimenti di macchina che caratterizzano il sesto film di Sorrentino (il quarto con Servillo, il quinto con la fotografia di Luca Bigazzi), le triangolazioni attraverso cui accompagna lo sguardo (ascendenti-discendenti-orizzontali) e l'iter "emozionale" del suo protagonista (dal rigetto di qualunque principio morale al tentativo di instaurare un rapporto vero con Ramona, interpretata da Sabrina Ferilli), è forte il richiamo ai tre stadi kierkegaardiani dell'esistenza, che non a caso culminano - proprio come il racconto, con la venuta della santa - nella "solitudine" al cospetto di Dio, con l'uomo chiamato ad abbandonare ogni finzione o illusione. Il "trucco", lo stesso con cui si può far sparire una giraffa durante un numero di magia, è quello che rimane a Jep per ritrovare la grande bellezza, miraggio di un amore giovanile dimenticato su uno scoglio al chiaro di luna.
Complessa e stratificata, l’opera del regista napoletano insegue lo stupore e il terreno, l’ascesa e la caduta: nell’equilibrio e nella suggestione della sospensione tra i due piani trova il culmine di geometrie estetiche un linguaggio riconoscibile e dirompente (che nel precedente This Must Be the Place rischiava di perdersi negli infiniti spazi di un’America incontrollabile), legato saldamente allo straordinario lavoro eseguito sulle musiche (di Lele Marchitelli quelle originali), che non a caso vanno a comporre una colonna sonora dalla durata pressoché identica a quella del film (2h24min in doppio CD per la EMI). Un film che gli occhi e le orecchie dimenticheranno difficilmente. Di grande, grande bellezza (Valerio Sammarco)
Forse l’opera più ambiziosa di Sorrentino fino ad oggi, La grande bellezza è un film che vive delle stesse contraddizioni che racconta, di eccessi barocchi e intimità commoventi, momenti di un surrealismo concretissimo come di puro e cristallino godimento estetico essenziale, di una crepuscolarità costante e ininterrotta perfino dalla luce del giorno e momenti di straordinaria lucidità su sé stessi e sul mondo.
Un film opulento per ragionata necessità, ma nel quale il regista trova perfino, niente affatto paradossalmente, lo spazio per calmierare la scalmatezza della sua vorticosa macchina da presa. (Federico Gironi)