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Agli inizi del XIX secolo, la giovane Saartjie Baartman, meglio nota come la 'Venere ottentotta' a causa delle su forme fisiche fuori dalla norma, viene portata in Europa con l'inganno e ben presto esposta come fenomeno da baraccone a Londra e poi a Parigi da impresari senza scrupoli. Dai teatri alle feste private alle case di tolleranza dove Saartjie contrae gravi malattie. Nella capitale francese illustri scienziati la vogliono per studiare nel dettaglio la struttura del corpo. Saatjie muore nel 1815, e le viene riservata una grande cerimonia funebre.
Regia: Abdellatif Kechiche
Interpreti: Yahima Torres (Saartjie), Andre Jacobs (Hendrick Caezar), Olivier Gourmet (Réaux), Elina Lowensohn (Jeanne), Francois Marthouret (Georges Cuvier), Michel Gionti (Jean Baptiste Berré), Jean Christophe Bouvet (Charles Mercailler), Violaine Gilibert (Géraldine Rivière), Violaine de Carne (Diane de Méry).
Sceneggiatura: Abdellatif Kechiche, Ghalya Lacroix
Fotografia:
Montaggio: Camille Toubkis, Ghalya Lacroix, Laurent Rouan, Albertine Lestera
Musiche: Slaheddine Kechiche
Durata: 2 ore e 39 minuti
Valutazione Pastorale (dal sito dell'Associazione Cattolica Esercenti Cinema - ACEC)
Giudizio: Complesso/scabrosità/dibattiti
Tematiche: Donna; Politica-Società; Scienza; Sessualità; Storia
Con scelta senz'altro interessante, Kechiche recupera una storia vera del tutto dimenticata, che riporta in primo piano due aspetti centrali dell'Ottocento europeo: lo spettacolo, e la scienza. I viaggi del secolo precedente hanno allargato confini e conoscenze. Uomini e donne, specie di colore, sono 'novità' per popolo, borghesi, nobili, e come tale vengono dati in pasto. E' forse la prima costruzione di uno 'star system' dedito a stupire, facendo vedere cose 'mai viste prima', e ben consapevole di doverci guadagnare sopra. Dall'altra parte, una scienza a sua volta avida di scoperte e che, dietro la patina dell'accademia, esigeva prestazioni per niente civili. Ecco allora la cronaca della infelice vita di una ragazza due volte vittima. Poteva essere un intenso racconto di denuncia ma l'iperegocentrica ispirazione di Kechiche rischia di vanificare il tutto. Ancora una volta (come nel precedente "Cous cous", 2007), il regista riesce ad essere eccessivo, debordante, attaccato all'immagine piena, aggressiva, scioccante anche quando non serve. Nella descrizione dei festini, del bordello, di molte situazioni critiche il gusto del barocco, della sottolineatura, della ripetizione prevale senza mai qualche sintesi, qualche sottinteso, qualche richiamo. Ne vengono fuori ben 159' non tutti necessari e difficili da seguire. Dal punto di vista pastorale, il film è da valutare come complesso, segnato da scabrosità e tuttavia adatto per dibattiti.
Utilizzazione: il film può essere utilizzato in programmazione ordinaria, ben tenendo presente quanto detto sopra e quindi con attenzione per un pubblico meno avvertito. Meglio pensare a situazioni mirate anche per avviare riflessioni sullo scenario storico-sociale che la pellicola propone. Stessa attenzione è da tenere per minori e piccoli in vista di passaggi televisivi o di uso di dvd e di altri strumenti tecnici.
A tre anni da Cous Cous, l'esplosivo ritorno di Kechiche. Che stravolge la settima arte con un durissimo attacco alle derive dello "sguardo collettivo"
"Non ho mai visto testa umana più simile a quella delle scimmie". Saartjie Baartman è già morta, il suo corpo sfruttato, ferito, martoriato in nome dell'attrattiva e della scienza, giace su un tavolo nel "dietro le quinte" dell'Accademia Reale di Medicina di Parigi. L'ultimo "spettacolo" lo regalano il calco in gesso della sua intera forma e la vagina in formaldeide, mostrati con glaciale freddezza dall'anatomista George Cuvier ad una platea di esimi colleghi. E' il 1817, solamente sette anni prima Saartjie abbandonava le sue terre (il Sudafrica) al seguito del boero Caezar per essere "esibita" negli zoo umani londinesi, poi nei salotti "bene" di Parigi "al guinzaglio" del domatore di orsi Réaux, finendo in uno squallido bordello. Morirà sola, nel 1815, per polmonite o malattia venerea, ma senza trovare la pace: la conformazione della sua scatola cranica, le natiche ipertrofiche e i genitali abnormi diventano oggetto di studio di medici interessati a "classificare" tali, evidenti diversità.
Dopo l'acclamato Cous Cous, Abdel Kechiche scrive un'altra straordinaria pagina di cinema con Venus noire: coerente da un punto di vista formale ed estetico con il percorso del cineasta francese, questa volta alle prese con la vera storia della "venere ottentotta" Saartjie ("piccola Sara"), i cui resti sono stati conservati per quasi due secoli al Musée de l’Homme, restituiti poi al Sudafrica solo nel 2002.
Affrontando frontalmente tutti gli inevitabili rischi che un film così pensato e reso potesse incontrare, Kechiche "sfrutta" la triste parabola della sua venere nera (interpretata dalla non professionista Yahima Torrès, magnifica) per ritrovare i prodromi delle derive voyeuriste e ipocrite di un certo sguardo collettivo, animale e malato: la scommessa più grande del film, in questo senso, è proprio quella di spogliare progressivamente Saartjie del suo status di protagonista, ruolo affidato in realtà allo spettatore stesso, dapprima gettato insieme al popolino nello squallore di un teatrino londinese, poi mischiato con l'élite parigina e infine assurto a rispettabile medico per decretare il "responso" definitivo, scientificamente misurabile, di quanto visto fino a quel momento. Lo scarto, la presa di coscienza dell'occhio che guarda, avviene nel momento forse più drammatico, pruriginosamente respingente dell'intero film, al festino francese in cui Réaux (Olivier Gourmet, superbo) invita il parterre di vecchie checche e baldracche ad "ammirare, toccare" il frutto proibito, l'essenza della diversità della ragazza, affetta da longininfismo: è in quel momento, quando la folla eccitata si scontra con le lacrime di Saartjie, quasi inorridendo, che l'ipocrisia strisciante esplode con violenza. "Sta piangendo, non ci divertiamo più", dirà qualcuno, dimenticando in un colpo solo la brutalità degli sguardi precedenti, nonché la "meraviglia" nel constatare che quella "bestia", ben addestrata, avesse dimostrato anche di saper ballare, cantare e suonare uno strumento. Perché Saartjie questo era, un'artista, arrivata in Europa con l'illusione di potersi affermare in quanto tale: sogno che però non coincideva con quanti, da Caezar a Réaux, individuarono nelle sue evidenti differenze fisiche il primo, ed unico motivo che avrebbe scatenato l'immaginario delle folle, disposte a pagare per vederla gattonare, essere cavalcata come una belva feroce, toccarle l'imponente sedere: dalla sensuale, estenuante danza del ventre della protagonista di Cous Cous alle "esibizioni" di Saartjie il passo è molto più breve di quanto si possa immaginare, cambiano le traiettorie di senso attraverso le quali il cinema di Kechiche, esasperato e viscerale, riesce a confrontarsi politicamente e sociologicamente con l'oggi, inquadrando un passato di 200 anni. Senza risparmiare nessuno, neanche se stesso, quando chiede al pittore naturalista dell'Académie - l'unico, nel corso di tutto il film, a rapportarsi con Saartjie da essere umano - di incarnare metaforicamente il ruolo del regista: dapprima ritraendone su tela l'imponente vitalità, poi calando sul calco di gesso il telo bianco, infine chiudendo il sipario sull'aula che ospiterà Cuvier e la sua dimostrazione. (Valerio Sammarco)