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Una separazione

Una separazione

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Simin vuole lasciare l'Iran con il marito Nader e la figlia Termeh. Nader, però, si rifiuta di lasciare il padre malato di Alzheimer e questa decisione convince Simil a chiedere il divorzio e a tornare a vivere con i suoi genitori. Termeh sceglie di rimanere col padre, il quale ingaggia una giovane donna, Razieh, che si prenda cura del padre malato. Presto si scoprirà che la nuova domestica non solo è incinta ma lavora all'insaputa del marito.

Regia: Asghar Farhadi

Interpreti: Peyman Moadi, Leila Hatami, Sareh Bayat, Sarina Farhadi, Babak Karimi, Ali-Asghar Shahbazi, Shirin Yazdanbakhsh

Sceneggiatura: Asghar Farhadi

Fotografia: Mahmoud Kalari

Montaggio: Hayedeh Safiyari

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cinematografo.it - Fondazione ente dello spettacolo ***** Dalle lacerazioni di una famiglia a quelle di un paese: ecco l'Iran a spirale di Farhadi. Un capolavoro

Sistemato Panahi, il regime iraniano dovrà fare i conti adesso con Asghar Farhadi. Che è persino più pericoloso, vista la capacità di dialogare con il grande pubblico. Farhadi è abile nel camuffare il dovere di critica dietro il diritto (ancora tollerato, ma per quanto?) di narrare storie appassionanti e - in apparenza - neutrali rispetto alla questione politica. Qualità che era già emersa nel precedente About Elly, dove la vacanza al mare di un gruppo di amici finiva in tragedia. Quel film si concludeva con l'immagine di una macchina arenata sulla spiaggia, simbolo neanche troppo nascosto di un paese impantanato nelle sabbie mobili delle proprie interne lacerazioni.

Con Una separazione - Orso d'oro a Berlino, d’argento al cast maschile e femminile, candidato iraniano all'Oscar - fa un ulteriore passo avanti. A partire dal percorso tortuoso che porterà una coppia - Nader (Peyman Moaadi) e Simin (Leila Hatami) - a dividersi, Farhadi disegna una spirale la cui traiettoria si allarga progressivamente ai temi della malattia (il padre di Nader con l’alzheimer), delle classi (lo scarto, culturale ed economico, tra la famiglia sfasciata e quella della badante), della giustizia (solerte ma inadeguata), della religione (chiamata in ballo anche nelle controversie più elementari), della menzogna (praticata sistematicamente). La separazione finisce per espandersi - come un cancro - a tutti i livelli della società iraniana, perciò abbondano nel film vetri rotti, pareti incrinate, muri divisori.

Fahradi sceglie di posizionare la mdp in mezzo, nel cuore della frattura. Cambia continuamente il punto di vista sulla verità. Aderisce alla prospettiva di ogni personaggio, mettendone a nudo umanità, fragilità, bassezze. Addensa il piano: di parole, gesti, sguardi terribili. Lascia lievitare il reale, esplodere le metafore. Il quotidiano viene smosso, i fatti intensificati, drammatizzati, infine rimossi.

Il film è un mulinello emozionale veloce, implacabile. La sua ruota dentata è l’Iran che gira, afferra, dilania. Freneticamente immobile. Dentro il vortice di un impasse. (Gianluca Arnone)

La critica

"Come già in 'About Elly', è difficile stabilire chi abbia ragione, se la donna che accusa o l'uomo che si difende, in un rimpallo di responsabilità che coinvolge i rispettivi coniugi ma anche la figlia adolescente di Nader. E sarà proprio lei a svelare le ipocrisie, le falsità e i compromessi dietro cui tutti si nascondono, offrendoci il ritratto di un Paese dove il rispetto della legge non aiuta mai a risolvere davvero i problemi." (Paolo Mereghetti, 'Corriere della Sera', 16 febbraio 2011)

"Borghesia chiacchierona, un passo avanti rispetto al solito Iran neorealista. Il regista di 'About Elly', Orso d'argento nel 2009, punta all'oro con questa storia che comincia con un divorzio (negato) e finisce in un tribunale penale. In mezzo: una domestica incinta, un padre con l'Alzheimer, un marito irascibile, una gravidanza nascosta sotto la palandrana. Cose da sapere: prima di cambiare un vecchio con il pigiama zuppo, una donna deve telefonare alla polizia coranica e chiedere il permesso. La figlia, già velata a sei anni e piuttosto furba: 'Non lo dirò a papà'." (Mariarosa Mancuso, 'Il Foglio', 16 febbraio 2011)

"Farhadi sarebbe diventato il secondo eroe dell'opposizione, ovvero nemico del regime: da una parte per aver riunito unanimi consensi attorno al proprio magnifico film, dall'altra per aver alzato la voce in favore di Panahi, di tutti gli artisti e della loro 'libertà di espressione'. (...) Asghar Farhadi, già premiato con l'Orso d'argento nel 2009 con 'About Elly', ha portato in concorso un film dalla storia solo apparentemente 'privata'. (...) Problemi interni ed esterni complicano una situazione già delicata, mentre il film arriva a vibrare come un 'Segreti e bugie' all'iraniana. Conflitto di classe incluso. Se umani pregi e virtù sono universali, gli evidenti ostacoli rimandano alle ferite di un Paese imprigionante e prigioniero. Il valore della pellicola è il medesimo di quelle di tanti film-maker sotto regime (anche nell'Italia fascista) capaci di esprimere il dissenso utilizzando con sapienza il linguaggio dell'arte, specie metaforico e simbolico. Ma anche, come in questo caso, narrando una storia qualunque dei loro/nostri tempi: personaggi e sfondo sono curati al punto tale da trasformare il contorno socio-politico del film nel cuore dell'attenzione mondiale." (Anna Maria Pasetti, 'Il Fatto Quotidiano', 18 febbraio 2011)

"Immaginate un giallo girato come un film neorealista. Un film in cui prima o poi tutti mentono almeno una volta, in tutti i modi possibili (per omissione, per convenienza, per necessità, per pietà). E soprattutto mentono in ogni possibile combinazione: al marito, alla moglie, al giudice, al figlio, ai genitori, in qualche caso anche a se stessi. Magari senza accorgersene. Adesso immaginate che questo film, in cui (quasi) tutto è sotto i nostri occhi ma l'essenziale avviene nelle coscienze dei personaggi, venga da uno dei paesi più segreti del mondo: l'Iran. (...) Dopo tanti film bellissimi e cifrati, osannati all'estero ma proibiti in patria, non avremmo mai sperato che da Teheran arrivasse qualcuno capace di unire gusti e pubblici tanto diversi. Se Asghar Farhadi, il regista di 'Una separazione', riesce nell'impresa è perché lascia parlare 'le cose', come una volta si diceva dei film neorealisti. Ovvero quell'insieme di conflitti, vistosi o invisibili, che sono al centro della vita sociale. Conflitti fra i sessi, le classi, le generazioni. E fra la diversa cultura di chi ha mezzi e educazione, e di chi non ha né gli uni né l'altra ma ha la religione come unica guida. (...) Usando le immagini non per cullarci o stordirci ma per accendere la nostra immaginazione, come sa fare solo il grande cinema. Con tale esattezza d'accenti che perfino la severissima censura iraniana non ha trovato niente da dire. Anche perché nessuno è davvero innocente, né del tutto colpevole. Anzi, la tensione morale che anima comunque tutti i personaggi del film, a confronto col cinismo conclamato del nostro liberissimo Occidente, fa perfino un po' impressione." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 21 ottobre 2011)

"Un film di grande umanità, di mirabile scrittura e quindi di altissima godibilità. Insomma un film 'divertente' nel senso più alto del termine, a condizione di essere spettatori adulti, capaci di divertirsi non solo a suon di rutti e flatulenze varie, ma osservando sullo schermo il dipanarsi dell'umana commedia. Non è facile, lo sappiamo: perché molti di voi, e non senza motivo, quando leggono 'cinema iraniano' pensano immediatamente a film - diciamo cosi - rarefatti, ad assenza di dialoghi, a lunghi viaggi in auto senza meta, a gonfiore di piedi e di altre meno nobili parti del corpo. Fuor di metafora: il cinema iraniano vanta artisti nobilissimi ma di fruizione difficile, come Kiarostami e il povero Panahi, che a causa del suo cinema civilmente impegnato è tuttora agli arresti domiciliari. Ma Asghar Farhadi, il regista di 'Una separazione', fa un cinema completamente diverso. Chi di voi ha trovato il coraggio, un paio d'anni fa, di vedere 'A proposito di Elly' lo sa. Farhadi è prima di tutto un enorme sceneggiatore. (...) 'Una separazione' mantiene ciò che promette: parla di un divorzio, ovvero di un evento sociale e sentimentale che in un paese islamico assume connotazioni particolarmente drammatiche. (...) Un simile tour de force sociale e cinematografico non reggerebbe senza una squadra di attori formidabili." (Alberto Crespi, 'L'Unità', 21 ottobre 2011)

"Ha un primo, grande merito il film del regista iraniano Asghar Farhadi, trionfatore all'ultimo Festival di Berlino: qualunque spettatore, vedendolo, non può esimersi dal praticare un po' di sana palestra cognitiva. Per poco più di due ore, Asghar Farhadi ti obbliga infatti a cambiare continuamente il punto di vista a partire dal quale osservi le cose. Ti induce ad adottare lo sguardo dell'altro. (...) Cinema come esercizio di pluralismo prospettico, come antidoto all'integralismo. Ma anche come parabola sulla difficoltà/impossibilità di giudicare. Perché un altro grande pregio del film è che riesce a farci capire e condividere le ragioni di tutti i personaggi. Che sono quasi sempre ragioni inconciliabili e incompatibili, ma comprensibili. Di chi è la colpa di quel che abbiamo visto succedere? Chi ha la responsabilità - sia pure preterintenzionale - dell'aborto involontario della donna che il marito aveva assunto come badante del vecchio padre dopo la separazione dalla moglie? Tutti e nessuno, perché nel film di Asghar Farha la colpa circola e si sposta, come in una 'congiura degli innocenti' in cui tutti sono convinti di saper bene chi è il colpevole, ma in un universo in cui le interpretazioni configgono, le versioni cozzano e la verità - se c'è - è sempre altrove. Costruito su alcune grandi ellissi narrative che sottraggono allo spettatore la visione diretta dei fatti più 'controversi', 'Una separazione' è un film molto diverso da quelli a cui il cinema iraniano ci aveva abituato negli ultimi anni: non ha infatti né il realismo poetico di Abbas Kiarostami né la radicalità politica di Yafar Panahi (il cineasta imprigionato dal regime di Teheran)." (Gianni Canova, 'Il Fatto Quotidiano', 21 ottobre 2011)

"Lentissimo, noioso, poco appassionante, piagnucoloso dramma social-familiare iraniano. È la storia, sommersa da particolari irrilevanti, di una separazione coniugale di fatto, anche se legalmente respinta dal giudice. Qualche lampo poetico non salva il film vincitore dell'ultimo Orso d'oro a Berlino. A certificare l'abissale divario tra critica e pubblico." (Massimo Bertarelli, 'Il Giornale', 21 ottobre 2011)

I film della stagione 2011 / 2012


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