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La storia di Fergus, guardia in un'organizzazione che si occupa di sicurezza privata in Iraq, che non accetta la spiegazione ufficiale sulla morte del suo amico Frankie, ucciso sulle sulla Route Irish (strada che collega l'aeroporto di Baghdad alla Green Zone), e mira a scoprire la verità...
In concorso al Festival di Cannes 2010
Regia: Ken Loach
Mark Womack, John Bishop, Najwa Nimri, Trevor Williams, Stephen Lord, Andrea Lowe, Geoff Bell, Jack Fortune, Talib Rasool, Craig Lundberg, Russell Anderson, Jamie Michie, Bradley Thompson, Daniel Foy, Maggie Southers, Anthony Schumacher, Donna Elson, Jaimes Locke
Sceneggiatura: Paul Laverty
Fotografia: Chris Menges
Montaggio: Jonathan Morris
Musiche: George Fenton
Durata: 1 ora e 49 minuti
Valutazione Pastorale a cura della Commissione Nazionale Valutazione Film della CEI
Giudizio: Complesso/problematico/dibattiti
Tematiche: Amicizia; Giustizia; Guerra; Politica-Società
Inutile pensare di prendervi parte in forme laterali e non coinvolgenti, scelte solo per il lauto guadagno pattuito: la guerra fa male, forse ai soldati in divisa, e certo anche a che vi assume ruoli differenti, più occasionali. Anzi questi compiti sussidiari (i contractors) talvolta risultano più rischiosi di quelli ufficiali. La guerra porta lutti, anche non voluti, perchè si è andati a combattere in zone dove non c'era stata alcuna richiesta di intervento. La guerra fa male, dice forte e chiaro Ken Loach, aiutato dal fido sceneggiatore Laverty. Ma stavolta subentra una differenza. Fergus, dilaniato dalla morte dell'amico, non va dai politici a chiedere il conto o in piazza a protestare. Sceglie la via della vendetta personale, privata, individuale. Non si confronta con nessuno, non chiede consiglio, sceglie un nome e lo elimina. Poi capisce di aver sbagliato, e che ora è lui a dover pagare. La guerra ci rende comunque peggiori, prima, durante e dopo. Ci fa disprezzare la vita. Loach corre su questo binario pericoloso, un po' urlando un po' chiudendosi su se stesso. Ci sono disperazione, amarezza, rassegnazione, c'è poca speranza. Ma il grido d'allarme rimane. Tra momenti azzeccati e altri meno risolti (quell'intercalare è sempre tutto necessario?), il film, dal punto di vista pastorale, è da valutare come complesso, problematico e adatto per dibattiti.
Utilizzazione: il film è da utilizzare in programmazione ordinaria e in seguito come avvio alla riflessione sui molti temi che propone. Attenzione è da tenere per minori e piccoli in vista di passaggi televisivi o di uso di dvd e di altri supporti tecnici.
Ken Loach sull'inedita strada della violenza (irachena): non si salva nessuno, nemmeno il film
Dopo Il vento che accarezza l’erba (Palma d’Oro 2006), l’Irlanda è solo nel titolo del nuovo Ken Loach: Route Irish, da noi L’altra verità. Un film duro: due amici, una donna in comune, un'infantile felicità nella Liverpool '70, che Fergus (Mark Womack) e Frankie (John Bishop) perderanno 30 anni dopo in Iraq, stipendiati con 10mila sterline al mese esentasse per fare i contractor, uomini di sicurezza privata. Nel settembre 2004, è l'ex parà Fergus a persuadere Frankie a raggiungerlo a Baghdad: sulla Route Irish, la via che collega la Green Zone all'aeroporto, la più pericolosa la mondo. Su quell'asfalto Frankie rimane tre anni dopo, ma Fergus non ci sta e indaga, dando libero sfogo alla propria furia. Nemmeno Rachel (Andrea Lowe), il terzo vertice del triangolo, potrà contenerlo...
Scritto dal sodale Paul Laverty, Route Irish non si inserisce agevolmente nella filmografia di Ken il rosso: è un urlo di rabbia che accompagna il pugno nello stomaco dello spettatore. Sì, Loach è infuriato: l'impunità che copre i delitti e l'avidità delle compagnie di sicurezza private, e, ancor più in alto, dei governi che le utilizzano dall'Iraq all'Afghanistan, proprio non gli va giù, e allora rincara la dose, anzi va in overdose, riempiendo lo schermo di schiaffi, pugni, tortura (waterboarding) ed esplosioni.
Abbandonata la retta via solidale e proletaria, sfodera il pugnale e colpisce nel mucchio, senza salvare nessuno, nemmeno se stesso: non grazia il suo Fergus, eroe mancato e vendicatore cieco; non Rachel, di cui stigmatizza l'impotenza: non la Legge, in colpevole fuoricampo; non la giustizia privata, destinata al vicolo cieco; non il suo cinema, preda dell'ira.
Una rabbia, un pessimismo (quasi) nichilista che destabilizza pure la camera, che gira attorno cercando di azzannare a testa bassa, e la stessa cifra poetico-stilistica di Loach: il minimalismo e l'umanesimo abituali lasciano spazio a una poco congeniale drammaturgia da revenge-movie, che poco giova alla rotondità psicologica dei personaggi. Insomma, una strada davvero maledetta. (Federico Pontiggia)
"Be' allora ditecelo, gli autori del pianeta, da Kiarostami a Kitano, da Tavernier a Oliver Stone, da Iñarritu a Ridley Scott si sono messi d'accordo per non sfigurare, per non perdere la media del sette e mezzo, neanche per eccellere. Bel festival, non puoi liquidarlo, non puoi esaltarlo. E Ken Loach? Idem con patate. 'Route Irish' (in concorso), denuncia della licenza di uccidere dei mercenari d'Iraq, è un thriller scalettato per pilotare contraddizioni e responsabilità della guerra alla prova della verità. Laggiù c'è una guerra parzialmente privatizzata. Sono 160mila gli agenti ingaggiati, e 50mila armati fino ai denti. Guardie di sicurezza, dicono, di aziende e personalità, ma sono stati protetti da vergognose illegalità, dal 2003 al 2009, dall'articolo 17, scaduto solo formalmente. La strada irlandese del titolo, verso l'aeroporto di Bagdad, è la più pericolosa. (...) Studiato dal fedele sceneggiatore Paul Laverty come pugno nello stomaco, si allinea a 'Nella valle di Elah', ma è privo della forza metaforica del film di Haggis." (Silvio Danese, 'Nazione-Carlino-Giorno', 20 maggio 2010)
"Potrebbe essere un thriller di denuncia, ma Loach usa il cinema di genere a metà e un po' come uno specchietto per allodole. Il punto non è cosa è successo a Bagdad, ma cosa accadrà a Liverpool. E l'import-export dell'orrore che ci fa capire cosa accade ogni giorno, qua come là, nelle teste di chi torna (se torna). Anche perché l'elettrico Fergus a sua volta ex-contractor, userà contro gli ex-superiori per cui la guerra è solo un business, gli stessi metodi usati in Iraq. Tortura compresa, in una scena sobria e agghiacciante che mette lui (e noi) su una falsa pista, perché il torturato dice qualsiasi cosa pur di finirla... Così, a differenza che in un qualsiasi thriller teso e rassicurante, qui la verità emerge ma non trionfa. Ogni scoperta conduce a un'altra, peggiore. Ogni passo avanti nell'indagine spinge Fergus un po' più in basso. Dovevamo esportare democrazia, invece abbiamo importato barbarie. La giustizia è un mito. Non ci sono più eroi, nemmeno negativi. La guerra è dentro di noi. Peccato solo che Loach e il suo fedele sceneggiatore Paul Laverty, malgrado la consueta sensibilità e attenzione per comprimari e sottotrame (...), pur di non accordare un grammo di fascino (e di profondità) ai cattivi della storia, finiscano per creare personaggi un poco simbolici dimostrativi. Come un teorema." (Fabio Ferzetti, 'Messaggero', 20 maggio 2010)
"Ken Loach, il concorrente last minute d'eccellenza, è esploso in uno dei suoi lavori più rabbiosi degli ultimi anni. 'Route Irish', la maledetta via dove Calipari fu ucciso e la Sgrena ferita, è il titolo del suo nuovo cine-attacco alla guerra, ovvero il 'luogo sbagliato al momento sbagliato' in cui Frankie, un contractor di Liverpool assoldato nel conflitto, salta per aria. Mercenari, gente pagata anche (soprattutto?) dai cartelli appaltatori della ricostruzione, soldati 'off' senza scrupoli se non quelli dell'ordinanza 17 (dopo il secondo sparo di avvertimenti, puoi trucidare chi ti pare) e che quando muore non merita la Union Jack sulla bara. (...) Del testo del fidato Laverty si imprimono i 'fucking' (almeno uno ogni tre parole) e della regia frettolosa di Loach la condanna senza appelli alle guerre e ai loro mercanti." (Anna Maria Pasetti, 'Il Riformista', 21 maggio 2010)
"Per una volta l'infedele traduzione italiana del titolo rischia di rivelarsi un aiuto per lo spettatore. Trasformare il titolo originale 'Route Irish' (nome convenzionale dato alla strada che collega Baghdad con il suo aeroporto, a detta dei militari una delle più pericolose in assoluto perché indifendibile dagli attentati) come ha fatto il distributore italiano in 'L'altra verità', è un modo per indirizzare lo spettatore verso il cuore del film. (...) Il nodo del film di Ken Loach è tutto negli ambigui comportamenti di chi recluta i contractor e nel 'monstrum legale' dell''Ordine 17', una disposizione imposta al Parlamento iracheno dalle autorità provvisorie d'occupazione che garantiva l'immunità dalle leggi locali a questi 'soldati privati'. Al regista inglese e al suo sceneggiatore Paul Laverty (...) interessa svelare questo stato di cose, i soprusi e i delitti che si compivano quotidianamente per difendere degli interessi che non avevano niente a che fare né con la pace né con la stabilità internazionale. È forse la parte più interessante del film quella in cui Fergus passa dai sospetti alle certezze, coinvolgendo nella sua ricerca anche un musicista/traduttore iracheno e soprattutto Rachel, la vedova che prima vedeva nel protagonista una specie di sovreccitato attaccabrighe e che poi capisce che forse solo da lui può arrivare un''altra verità'. Quello che invece riesce meno a Loach è mettere insieme due logiche in qualche modo antitetiche: da una parte quella del film d'azione e di detection, costretta a tenere sempre alta la tensione per coinvolgere lo spettatore nella ricerca della soluzione; dall'altra la necessità di spiegare e far capire i meccanismi politici (e militari) che sono alla base del lavoro dei contractor. La prima logica ha bisogno di colpi di scena, di tensioni forti, di scene ad effetto; la seconda avrebbe bisogno di più calma, una maggior lentezza narrativa, una più approfondita disamina dei fatti. Loach sceglie decisamente la prima e cade nell'errore di spettacolarizzare ogni cosa, anche quelle che non ne avrebbero bisogno." (Paolo Mereghetti, 'Corriere della Sera', 19 aprile 2011)
"Presentato in concorso a Cannes un anno fa, il film di Loach ne ha spiazzato soprattutto gli estimatori, stupiti che il regista e lo sceneggiatore dei suoi film migliori, Paul Laverty, si siano spostati sul terreno scivoloso del 'revenge movie', il film di vendetta tradizionalmente più congeniale a Stallone, Schwarzenegger e relativi epigoni che non a un autore di sinistra conclamato. La messa in scena della violenza, in effetti, non fa sconti allo spettatore; inclusa la tecnica di tortura legalizzata che i mercenari infliggevano alla popolazione irachena. Portando all'esasperazione la tensione del protagonista (lo interpreta con rabbia convincente Mark Womack, attore televisivo), Loach e Laverty rivisitano le figure più codificate del thriller paranoico; anche il personaggio di Rachel (Andrea Lowe, al debutto nel cinema), la donna al bivio tra due uomini e che un tempo li ha separati, appartiene a un repertorio ben noto. E' come se regista e sceneggiatore (insolitamente disposto ai dialoghi didascalici) si preoccupassero di essere il più chiari possibile nella loro denuncia, scegliendo perciò di adottare le convenzioni del cinema popolare. A differenza del quale, però, non esiste qui la catarsi che eroicizza il vendicatore come nei thriller reazionari di Hollywood. 'L'altra verità', anzi, è traversato da un pessimismo integrale, ai limiti del nichilismo. Perfino la macchina da presa del grande direttore della fotografia Chris Menges è arrabbiata, e lo è a freddo; nervosa e destabilizzata, gira intorno a se stessa come cercasse di controllare il terreno e di proteggersi le spalle. Un Loach diverso? Non così tanto: se in "Terra e libertà" il regista rivisitava la guerra di Spagna con aperture al romanticismo, 'Il vento che accarezza l'erba' (Palma d'oro a Cannes ne12006) raccontava già il conflitto armato in Irlanda con estrema violenza e ben poche speranze nell'umanità." (Roberto Nepoti, 'La Repubblica', 19 aprile 2011)
"Magari significa qualcosa che nessuno dei film sulla guerra in Iraq e dintorni sia andato bene al botteghino, anche quando c'erano dietro star di prima grandezza. (...) 'L'altra verità' è la storia dell'indagine privata, sempre più serrata e ossessiva, che Fergus, sentendosi in colpa per la morte del sodale, istruisce alla sua maniera paramilitare, quasi trasferendo nella Liverpool che fu dei Beatles la logica stringente della guerra a Bagdad. Bisogna infatti sapere che, al culmine dell'occupazione, quasi 160 mila 'contractor', dei quali 50 mila armati fino ai denti, trovarono lavoro in Iraq. (...) Tranquilli: non c'è Rambo di mezzo, anche se qualche critico, da Cannes 2010, rimproverò Loach di aver applicato il teorema con notevole schematismo, dividendo i personaggi tra buoni e cattivi, girando un film più sensibile alle regole del thriller d'azione che alle patologie disfunzionali prodotte dal disturbo post-traumatico da stress. Non è così. In un film americano l'eroe raddrizzatorti alla fine rientrerebbe tranquillamente nei ranghi dopo aver fatto giustizia, in 'L'altra verità' l'agire furente di Fergus è avvelenato da errori, torture e coazioni a ripetere. «Meglio abbatterlo un cane rabbioso, prima che uccida qualcun altro»: è la consapevolezza alla quale approda il guerriero ormai persosi nelle tenebre di una vendetta personale, contraddittoria, figlia della stessa abiezione che si voleva combattere." (Michele Anselmi, 'Il Riformista', 19 aprile 2011)
"Attenzione a non trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato, per di più sulla strada più pericolosa del mondo. (...) Pur senza appartenere al Loach più ispirato, 'L'altra verità' ha un respiro di racconto forte e sincero, lanciato nelle convulsioni della denuncia strutturata sull'estreme conseguenze di un comportamento da rivalsa senza perdono. A tortura si risponde con la tortura magari usando l'acqua secondo l'ipocrita presunzione-alibi del 'niente sangue niente peccato', a un assassinio si replica con un omicidio. Le rampogne di rambismo rivolte a Loach sono fuori luogo perché la sua macchina da presa dettaglia proprio le emozioni di 'rambi' spaesati che reagiscono soltanto secondo quanto hanno imparato in addestramento e in battaglia. E' davvero un Ken Loach implacabile, probabilmente indotto dalla foga a osare oltre misura, ma non si gli può certamente rimproverare di non aver allestito un thriller teso e convincente, così come non ci si può accorgere soltanto con "L'altra verità" che le sue sequenze possiedono il metronomo, lo stile e l'impulso dello schematismo manicheo. Anche se in realtà Bene e Male sono categorie escluse a priori dentro la perlustrazione della più controversa guerra contemporanea che Loach prende di petto nella sua totale repulsione verso l'impunità del potere." (Natalino Bruzzone, 'Il Secolo XIX', 19 aprile 2011)
"La guerra è sempre più un affare privato. E l'orrore non può che peggiorare. Ken Loach sente l'urgenza di condannare l'inferno nell'inferno, esplodendo di rabbia in un film frettoloso, frenetico, imperfetto. Su sceneggiatura del solidale Paul Laverty, si concentra sul conflitto 'mercenario' in Iraq e confeziona 'Route Irish' (diventa da noi il polivalente 'L'altra verità') a rievocare il maledetto tragitto Baghdad - aeroporto dove troppi - incluso Calipari - perdono ancora la vita. (...) Loach affila il coltello, e se stavolta non affonda in un cinema esemplare, riesce comunque a colpire la mal politica estera di Sua Maestà ed alleati. Anche noi." (Anna Maria Pasetti, 'Il Fatto Quotidiano', 21 aprile 2011)