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Nel ventesimo anniversario del suo rivoluzionario capolavoro Roger & Me, Capitalism: A Love Story riporta Michael Moore ad affrontare il problema che è al centro di tutta la sua opera: l'impatto disastroso che il dominio delle corporation ha sulla vita quotidiana degli americani (e, quindi, anche del resto del mondo). Ma questa volta il colpevole è molto più grande della General Motors e la scena del crimine ben più ampia di Flint, Michigan. Dalla Middle America fino ad arrivare ai corridoi del potere a Washington e all'epicentro finanziario globale di Manhattan, Michael Moore porterà ancora una volta gli spettatori su una strada inesplorata. Con umorismo e indignazione, Capitalism: A Love Story di Michael Moore esplora una domanda tabù: qual è il prezzo che l'America paga per il suo amore verso il capitalismo? Anni fa, quell'amore sembrava assolutamente innocente. Tuttavia, oggi il sogno americano sembra sempre più un incubo, mentre le famiglie ne pagano il prezzo, vedendo andare in fumo i loro posti di lavoro, le case e i risparmi. Moore ci porta nelle abitazioni di persone comuni, le cui vite sono state stravolte, mentre cerca spiegazioni a Washington e altrove. Quello che scopre sono dei sintomi fin troppo familiari di un amore finito male: bugie, maltrattamenti, tradimenti... e 14.000 posti di lavoro persi ogni giorno. Capitalism: A Love Story rappresenta una summa delle precedenti opere di Moore, ma è anche uno sguardo su un futuro nel quale una speranza è possibile. E' il tentativo estremo di Michael Moore di rispondere alla domanda che si è posto in tutta la sua carriera di regista: chi siamo e perché ci comportiamo in questo modo?
Regia | Michael Moore |
Sceneggiatura | Michael Moore |
Valutazione Pastorale (dal sito dell'Associazione Cattolica Esercenti Cinema - ACEC)
Giudizio: consigliabile, problematico, dibattiti
Tematiche: Politica-Società;
Dopo "Sicko" (2007) in cui prendeva di mira il sistema sanitario, ora Moore
passa da una parte al tutto. Capisce che il problema è più ampio e investe
un modo di essere, ossia di esistere. Il capitalismo va di pari passo con la
nascita dell'espansionismo economico americano e con la sua affermazione nel
mondo. Moore alterna documenti storici, immagini di repertorio a interviste
di oggi che spaziano da personaggi importanti a persone comuni, quelle che
pagano le conseguenze di decisioni sconsiderate e ispirate dal traguardo del
profitto. Come in altre coccasioni, il tono di Moore, che interviene in
prima persona, è ispirato da un sarcasmo ispido, arguto, velenoso. Mette
alla berlina, ironizza, denuncia, sembrando sempre un po' al di sopra delle
parti. I campanelli d'allarme che lancia sono comunque opportuni, e il film,
dal punto di vista pastorale, é da valutare come consigliabile, problematico
e adatto per dibattiti.
Utilizzazione: il film é da
utilizzare in programmazione ordinaria e, meglio, in occasioni mirate per
avviare riflessioni sui temi di grande attualità che propone.
Quando la crisi rilancia in Concorso un "non regista", ovvero uno straordinario performer: Moore verso il Leone. A furor di popolo
Forse, il miglior Michael Moore di sempre. Ovvio, un tanto al chilo,
perché nonostante il regista di Flint, Michigan, sia un filo smagrito, il
suo cinema continua a doversi pesare sulla bilancia: quantità, più che
qualità, ovvero contenuti a scapito di uno stile indifferente al cinema tout
court. E il Michael Moore di Capitalism pesa assai: poderoso,
omnicomprensivo, arrabbiato, affabulatore e, qui e là, geniale.
Non solo, è la definitiva consacrazione di un "non regista", ovvero uno
straordinario performer, comunicatore di razza, ad alto tasso di faziosità,
che qui tuttavia sparando contro la Croce Rossa - la truffa finanziaria -
pare quasi essere relegata nel fuoricampo.
Ancora più importante, la sofferenza in presa diretta è meno invasiva, ovvero più dignitosa del solito, quasi che di fronte alla rapina a mano armata del sistema finanziario nemmeno le lacrime servissero. La partita, insomma, è già vinta prima che il film inizi, ma Moore fa ugualmente di tutto per non perderla: sotto il suo fuoco, tra umorismo, sarcasmo e "santa" cattiveria (pure la Chiesa è dalla sua parte contro l'abominio capitalistico), cadono in tanti, dall'immancabile Bush a vari ministri del Tesoro e alle tante aziende che lucrano assicurativamente sulla vita, ovvero la morte, dei propri dipendenti di fascia bassa (Dead Peasants), fino al nemico pubblico numero 1, la banca d'affari Goldman Sachs, che, Moore dixit, sarebbe stata pure la prima finanziatrice con 17 milioni di dollari (in conferenza stampa ha poi ridotto a un milione...) della campagna elettorale di Obama.
Tra presa diretta e materiale di repertorio, Moore tiene quasi incollati sulle poltroncine, passando dalla Luna a Roosevelt, dai subprime ai derivati - con sequenze esilaranti di professori ed economisti babbei -, dagli scioperi in fabbrica alle case sequestrate dalle banche, per fare una cronologia critica della crisi: poco creativo, forse, sicuramente utile, se non necessario.
Due esempi per illuminare difetti e pregi di Capitalism: ottusa e sciovinista è nel film l'asserzione che la nostra Costituzione, ma pure la tedesca e la giapponese, sia così civilmente illuminata perché output diretto, alla fine della II Guerra Mondiale, dei collaboratori di Roosevelt, che se non fosse morto avrebbe dotato gli Usa di "analoga" carta dei diritti; straordinaria, viceversa, la conclusione, con Moore a delimitare con il nastro giallo la Crime Scene finanziaria: Wall Street, Goldman, e via dicendo, vorrebbe arrestarli da privato cittadino. A confermare la sua natura: piccolo regista, grande artista performativo. Potrebbe bastare, comunque, per vincere il Leone d'Oro: a furor di popolo. (Federico Pontiggia)