Questo evento non è attualmente presente nella programmazione dell'auditorium Per conoscere la nostra programmazione vai alla home page del sito con oppure utilizza uno dei nostri canali informativi: newsletter Il giornalista della TV del Kazakhstan Borat viene inviato negli Stati Uniti per girare un reportage sul più grande paese del mondo. Ma Borat è più interessato a trovare e sposare Pamela Anderson.
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Valutazione Pastorale (dal sito dell'Associazione Cattolica Esercenti Cinema)
Giudizio: discutibile / volgare
Il giornalista fittizio fa finte interviste ma gli interlocutori le prendono per vere e balbettano risposte incerte o accennano reazioni imbarazzate. Lo spunto è quello, magari non nuovissimo, della candid camera; l'obiettivo quello di far emergere quella possibile 'verità' che le paludate inchieste 'ufficiali' quasi mai ottengono. Per fare questo Baron Cohen, comico inglese (é nato a Londra nel 1971), sceglie la strada della provocazione totale, e così, mettendo in atto gesti sconvenienti e pronunciando frasi poco corrette, innesca meccanismi di stupore, di impreparazione individuale e collettiva. Il punto centrale é (o dovrebbe essere) quello di andare a toccare il nervo scoperto della vita civile e sociale americana: la paura delle "invasioni barbariche", ossia tutti gli altri, i non americani, quelli che fanno corsa a parte, che esistono in un universo parallelo. Ne consegue che le tappe di questo "road movie" sono scandite da una ingenuità quasi perversa, da pesantezze visive prolungate, da un approccio a temi quali il razzismo, la libertà, la fede religiosa, improntato a sconcezze varie. Un satira dura, decisa, amara, un umorismo greve che può sollevare qualche risata ma anche essere respingente. E tuttavia non appare fine a se stesso, anche se, va ripetuto, perde il senso della misura per voler appunto strafare, o essere ripetitivo. Dal punto di vista pastorale, l'approccio ad un prodotto di questo tipo cerca di tenere conto da un lato delle intenzioni realistiche, concrete, precise dell'operazione, dall'altro mantiene ben ferma la constatazione che il buon gusto è quasi scomparso all'interno di quel genere narrativo che mette alla berlina vizi e virtù in giro per il mondo. Il film così viene valutato come discutibile, e nell'insieme soprattutto volgare.
Utilizzazione: l'utilizzo é decisamente sconsigliato nella programmazione ordinaria. Qualche recupero può eventualmente essere previsto in occasioni mirate, laddove sia possibile accompagnare la proiezione con opportuni interventi di supporto. Molta attenzione è comunque da tenere in vista di passaggi televisivi o di utilizzo di VHS e DVD.
Dal Kazakistan con furore: Sacha Baron Cohen reporter d'assalto negli States. Tra docmock, satira, polemiche (e stupidità...)
Borat, il fenomeno è arrivato. E come tutti i fenomeni mediatici è un po' da baracconi. Borat: Cultural Learnings of America for Make Benefit Glorious Nation of Kazakhstan, questo lo sgrammaticato titolo originale da noi incomprensibilmente ripulito in Borat: Studio culturale dell'America a beneficio della Gloriosa Nazione del Kazakhstan, è un mockumentary, ovvero un falso documentario, sul giornalista kazako Borat Sagdiyev inviato negli Stati Uniti per girare un documentario sull’american way of life. A dare corpo e vis dialettica a Borat è il comico-trasformista inglese Sacha Baron Cohen, alias Ali G, il personaggio che dà il nome al suo Show trasmesso in patria da Channel Four e negli States da HBO. Dopo aver visto in hotel a New York una puntata di Baywatch, Borat si innamora di Pamela Anderson e intraprende un viaggio on the road verso la California per rapirla e portarsela in Kazakistan a scopo matrimonio. Intenzione dichiarata portare beneficio alla sua gloriosa nazione, ma che tale nel film non appare. All’inizio Borat bacia con foga una ragazza bionda, poi la presenta: "Questa è mia sorella Natalya, la seconda più importante prostituta del paese". Lei alza la coppa. Ma non è tutto: Borat incontra l’eroico stupratore del villaggio e il fratello ritardato, e assiste alla "corsa dell’ebreo", ispirata alla festa di san Firmin di Pamplona, con i kazachi che scappano inseguiti da due ebrei. Se il presidente kazaco è insorto contro questa brutta cartolina, l’Anti Defamation League ha protestato per l’antisemitismo che gronda dalla pellicola, nonostante Sacha Baron Cohen sia ebreo praticante. A fare una figura barbina è anche l’America, "raccontata" da persone comuni, politici ed esperti di comportamento che credono di rispondere alle strampalate domande di un giornalista kazaco. Ma parlare di satira sull’era Bush è fuori luogo, si tratta piuttosto di un esplicito politically uncorrect a scopo entertainment, con alcuni sprazzi di utile cattiveria nel continuum becero-ridanciano. Come ha sentenziato la critica Usa, "la stupidità non è mai parsa intelligente, elegante e utile come in Borat". Ma rimane stupidità.
Ps: Borat in Italia - dopo l'anteprima alla Festa del Cinema di Roma in ottobre - arriva al traguardo sala con quattro mesi di ritardo dall’uscita internazionale (3 novembre 2006), alla faccia dei buoni propositi di day and date (la distribuzione in contemporanea mondiale).
Ps2: La scelta di doppiare il film è suicida. (Federico Pontiggia)
"Ai festival solitamente non è prevista la risata sgangherata e irrefrenabile, considerata sconveniente se non addirittura dissoluta: al massimo un sorriso, se però provvisto di agganci dotti. Mai infatti anche il più spregiudicato degli organizzatori inviterebbe oggi un film di Natale, genere fratelli Vanzina o Neri Parenti, scurrile e infantile, coprofilo e borgheziano: e neppure un film derivato da 'Scherzi a parte' o 'Le jene'. Eppure 'Borat', sottotitolo 'Lezioni di cultura americana a favore della gloriosa nazione del Kazakistan' era al festival di Toronto ed era l'evento più atteso della festa del cinema: sia là che qua ha avuto un successo grandioso, con buona parte del pubblico piegato in due dalle risate, con un po' di vergogna." (Natalia Aspesi, 'la Repubblica', 21 ottobre 2006)
"A scriverlo può sembrare goliardico e ovvio, a vederlo è irresistibile perché oltre al finto reporter Borat sullo schermo ci sono gli americani veri e le loro reazioni, spesso ancora più dementi e insultanti. Il trucco consisterebbe nel far firmare alle persone coinvolte la liberatoria prima di girare, con la scusa dell'intervista. Non metteremmo la mano sul fuoco sull'autenticità di ogni singola scena, ma se quelle facce e quelle reazioni non fossero davvero rubate, questo 'Borat' diretto da Larry Charles sarebbe opera di un grande regista capace di ottenere risultati incredibili da attori non professionisti. Cosa ancora più difficile da credere. Comunque sia, dopo aver sbertucciato a dovere nel prologo un Kazakistan immaginario popolato di zoticoni, prostitute, stupratori e antisemiti (immaginario ma capace di far infuriare i veri kazaki, e possiamo capirli), Borat agisce come un rivelatore della stupidità e del razzismo nascosti come un automatismo sotto la pelle della gente comune. (...) Vale la pena ricordare che Cohen non solo è ebreo ma è un ebreo ortodosso nonché un attivo militante contro l'antisemitismo. Non tutti ci credono se un'esigua minoranza di integralisti ha condannato senza appello il suo umorismo oltraggioso. Ma intanto lui ha cambiato le regole del comico nel modo più radicale possibile. Abolendole." (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 21 ottobre 2006)
"Accertato che il regista Larry Charles non conta assolutamente nulla, questa specie di pamphlet contro tutto e tutti squaderna la propria animaccia ribalda teorizzando la lotta senza quartiere contro ogni fondamentalismo (femminista, ebreo, cristiano, nero, gay, gitano, animalista ecc.). Il comportamento pecoreccio del protagonista vuole in questo modo far emergere le ipocrisie, i pregiudizi e la marea di sentimenti inverecondi radicati nei contemporanei: il suo inglese grottesco, la sua rozzezza animalesca, il suo disprezzo verso ogni maggioranza e ogni minoranza dovrebbero solleticare non solo il lato oscuro delle società occidentali e orientali, ma anche le facciate zelantemente verniciate col 'politicamente corretto'. L'effetto non è gradevole, ma sicuramente delirante, tanto da far sembrare Michael Moore un compunto scolaretto: anche perché l'autore-attore, che nel film deambula portandosi appresso un sacchetto di cacca e la foto che documenta le misure oversize del pisello del figlio, si rivolge alla stampa (s)ragionando come il suo personaggio. (...) Mentre i festivalieri applaudono, sia pure un po' vergognandosene, i ministri del vero Kazakhstan protestano. Forse perché le esternazioni del nostro non prevedono limiti: 'Noi non abbiamo gladiatori, cowboy o samurai, ma possiamo contare su zingari fenomenali. Con l'Inghilterra di Blair intratteniamo poi rapporti splendidi: tutti e due commerciamo fruttuosamente con l'uranio'. Nell'acme della parodia, si esibisce nudo in un incontro di wrestling/kamasutra con il suo lardoso produttore anch'esso senza veli: che si tratti di scellerata goliardia o di memorabile stracult, lo decideranno i connazionali spettatori convinti che il troppo non stroppia e disposti a restare in attesa sino al marzo del 2007, quando il film uscirà nelle nostre sale." (Valerio Caprara, 'Il Mattino', 21 ottobre 2006)